IL DISCORSO DELLA CAPA
Ritratto dell'Autorità Tradizionale Theresa Kachindamoto del Malawi
foto e testo di Laura Salvinelli
“Sono Theresa, settima della dinastia Kachindamoto, nome che vuol dire “fare sesso col fuoco”. Siamo in un piccolo Paese dell’Africa orientale, fatto di campi di tabacco, mais, cassava, canna da zucchero, patate, di baobab e di un lago, il terzo del continente, grande quanto un mare: il Malawi. A parlarmi protetta dalle ali dell’aquila del suo trono che sembra uscito dalla saga di Guerre stellari è la massima autorità tradizionale del Distretto di Dedza nella regione centrale. Le autorità tradizionali africane, eredi delle famiglie reali, sono sottomesse ai governi, ma sul territorio sono riconosciute e rispettate come la somma autorità. Chiedete a un abitante di un villaggio remoto chi è il capo dello Stato o del governo (qui sono la stessa persona) e forse non lo saprà, ma i nomi dei capi e soprattutto quello del capo anziano sono scolpiti nella sua coscienza. La capa suprema Kachindamoto, appartenente a famiglie reali da parte di padre e madre, esercita ammirevolmente la sua autorità su oltre un milione di malawiani di 7 diversi gruppi etnici. Si è fatta conoscere per aver abolito più di 2.500 matrimoni precoci e rimandato a scuola le ragazze e i ragazzi. Ha bandito la tradizione degli uomini-iena nei campi d’iniziazione sessuale delle ragazze: uomini che, col consenso delle famiglie, stuprano le ragazze entrate nella pubertà per prepararle al soddisfacimento sessuale dei futuri mariti. Ha vietato la condivisione delle spose con gli amici dei mariti. Insomma, sta usando la sua autorità per eliminare quelle tradizioni che hanno umiliato le donne da tempo immemore, nonostante le origini matriarcali dei Bantu, da cui derivano le tribù che popolano il Malawi. Di tali origini rimane solo la matrilinearità delle tribù della regione centrale e della maggior parte di quella meridionale, che tuttavia non impedisce che le donne siano oberate di lavoro, sfruttate quasi sempre dagli uomini e oppresse dalla tradizione. Chiedo alla capa di raccontarmi la sua storia partendo dalla sua infanzia nella famiglia reale, di cui nessuno ha mai scritto. Il racconto, che segue una logica molto diversa da quella occidentale, si volge su spirali che amano la ripetizione, il dialogo diretto - anche con la divinità e i defunti - e una leggerezza gentile e allegra. I tempi sono dilatati dal piacere del raccontare.
“Sono nata sessant’anni fa nel distretto di Dedza. Sono la figlia minore di capo Kachindamoto quarto, la dodicesima di 7 fratelli e 5 sorelle. Discendiamo da una delle famiglie reali dello Swaziland. Mio padre ebbe 4 mogli, ma scelse mia madre come l’unica, e morì fra le sue braccia. Non capivo perché avesse sposato tutte quelle donne che poi allontanava. Ma soprattutto ero in conflitto con lui per il suo strano piano su di me: poiché ero la più piccola, dunque quella che avrebbe sofferto di più per la sua perdita, avrei studiato. A quei tempi i capi possedevano tutto, e quando dico tutto, intendo davvero tutto. Mentre i miei fratelli e sorelle si divertivano e abusavano del ben di Dio che abbondava in casa – e soprattutto dell’alcol perché all’epoca i produttori ne dovevano al capo una grossa porzione - io passavo infelice da una scuola all’altra, chiedendo a mia madre se mio padre fosse davvero il mio genitore. Crescendo ho visto morire 5 fratelli e 2 sorelle per l’alcolismo, e ancora adesso mi inginocchio chiedendogli perdono per i miei capricci di bambina. Fui arrabbiata con lui anche quando in realtà mi venne a salvare dal campo d’iniziazione sessuale a cui ero andata d’accordo con mia madre. Avrei preferito restare con le mie amiche, che erano tutte lì, ma lo vidi furioso e gli obbedii. Quando mia madre mi consegnò il denaro che mi aveva lasciato, mi disse che se non l’avessi utilizzato per costruire il mio futuro, mio padre sarebbe uscito dalla tomba e l’avrebbe uccisa. Dunque mi diedi da fare, e dopo essermi diplomata in dattilografia e computer, ho lavorato come segretaria del college di Zomba, nella regione meridionale, per 27 anni. A quel tempo manco mi sognavo che un giorno sarei stata qui. I capi erano uomini, non donne. Mi sposai ed ebbi 5 figli, anche se ne avrei voluti solo 3. Desideravo una bambina ma ogni volta mi nasceva un maschio, fino al quinto, quando ho detto “basta così”. Nel frattempo, a mio padre era succeduto il secondogenito e alla sua morte il terzogenito. Quando anche questi morì, nel 2001, la famiglia reale venne a chiedermi di prendere il titolo. Stupita, risposi: “No, perché mai io? Vi siete scordati che nella nostra tribù Ngoni una donna non può avere il potere?” Anche mio marito e i miei figli non erano disposti a cambiare vita. Dopo quasi 3 anni fu mio marito a cambiare idea e a convincermi che forse Dio aveva qualcosa in serbo per me, e finalmente accettai. Tornai a casa, e lungo la strada e di fronte alla residenza reale mi aspettava una gran folla che mi acclamava. Scesa dalla macchina chiesi 5 minuti di tempo. Entrai in casa e così pregai: “O Dio, non sapevo che un giorno sarei diventata capa. Ma visto che hai deciso così, aiutami a essere una buona capa”. Andai fuori e sorridendo accettai. Tutti ne furono felici e mangiarono il cibo che era stato preparato. Il 26 dicembre 2003 fui ufficialmente insignita del titolo di Inkosi, capa suprema”.
“Ben presto mi resi conto che la metà del milione di persone su cui avevo autorità erano ragazzini di 13-14 anni sposati e con figli”. In Malawi per legge l’età minima per sposarsi è 18 anni, ma le autorità locali, d’accordo con le famiglie, per diritto consuetudinario sposano le ragazze appena sono in grado di far figli, l’unico ruolo che possono avere nelle comunità. “Decisi di annullare i matrimoni precoci. Ho dovuto lottare per ottenere il rispetto dei capi, che continuavano a far celebrare i matrimoni dei minori. Ne ho dovuti licenziare alcuni, che ho poi riaccettato quando sono diventati collaborativi. Ora tutti sanno che faccio sul serio. Non solo non mi faccio pagare – altrimenti penserebbero che voglio solo arricchirmi - ma sostengo con tutte le mie risorse, la mia diaria, la vendita dei prodotti delle mie terre, il ritorno delle ragazze e dei ragazzi a scuola. Se si educano le ragazze, si educa l’intera nazione. Combatto costantemente contro la mentalità dei genitori per i quali ogni anno di scuola in più è un nipote in meno. I contadini sposano le loro figlie prima possibile per avere in cambio una capra, delle galline, del cibo. Io cerco di spiegare loro che quando saranno istruite le ragazze si prenderanno cura di loro meglio. Ho istituito la rete delle “madri segrete”, che sono dappertutto, ai pozzi, ai fiumi, ai mercati, e controllano la situazione casa per casa: sono le mie “spie” nei 551 villaggi che governo. Annullati i matrimoni, i ragazzi fanno il test dell’HIV e poi tornano nelle loro case e a scuola. Ho anche vietato la tradizione degli uomini-iena. Dio ha creato la iena con 4 zampe per vivere nella foresta, non nei villaggi, quindi la tradizione della iena deve scomparire dai villaggi, almeno fino a che non sarò morta. Non voglio che le ragazze rischino di ammalarsi di AIDS. Mi sono presentata all’improvviso in un campo d’iniziazione sessuale. Le istruttrici, molto sorprese, mi hanno spiegato che avevano insegnato a quella ventina di ragazze radunate l’importanza e l’obbligo della soddisfazione sessuale del futuro marito. Mi hanno poi pregata di andarmene, perché quella sera sarebbero arrivati gli uomini per la lezione di pratica. Ma sono rimasta. Le ragazze si sono spogliate e quando sono arrivati gli uomini li ho sfidati: “Venite! Volete anche me?” Sono scappati tutti via. Ho fatto rivestire e ragazze e le ho fatte tornare a casa. Inoltre ho abolito la tradizione della condivisione delle mogli con gli amici. Le donne sono venute a ringraziarmi. Erano sconvolte dall’esser state costrette dai loro mariti a fare sesso con i loro amici. Mi hanno portato le piccole somme di denaro che potevano permettersi, ma ho detto loro di usarle invece per fare il test dell’HIV”. Conclude soddisfatta: “Ora è tutto sotto controllo!”
Che ci faccio davanti alla capa suprema sul suo trono con l’aquila nel distretto di Dedza? Sto documentando fotograficamente i progetti del Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli (CISP) che dal 1999 è in Malawi, uno dei Paesi più poveri del mondo che basa la sua economia sull’agricoltura. Il CISP ora sta implementando il progetto di resilienza finanziato dal World Food Programme (il Programma di Alimentazione Mondiale delle Nazioni Unite) nel distretto di Karonga, nella regione settentrionale. Questo progetto mira a ridurre la povertà attraverso l’assistenza alimentare in cambio di beni e servizi per la comunità: viene incontro ai bisogni alimentari più immediati con distribuzione di denaro o cibo, promuovendo allo stesso tempo la creazione o il ripristino di beni e servizi in grado di migliorare la sicurezza alimentare e la resilienza a lungo termine, e sostenendo le associazioni di risparmio e prestito, molto amate dalle donne. Il CISP sta inoltre implementando 2 progetti di sicurezza alimentare attraverso schemi d’irrigazione, finanziati dall’Unione Europea e in collaborazione col Ministero dell’Agricoltura malawiano, nei distretti di Nkhotakota e Dedza, appunto quello di capa Kachindamoto, nella regione centrale. Oltre a fornire l’accesso all’acqua per irrigare i campi, questi progetti includono molte attività complementari: formazione, assistenza tecnica, anche qui le associazioni di risparmio e credito, iniziative per il potenziamento delle capacità e sviluppo economico e sociale degli agricoltori e per il rispetto dell’ambiente, cercando di contrastare la deforestazione, l’erosione del suolo e gli effetti del cambiamento climatico. L’idea alla base dei progetti è che i vulnerabili, sostenuti solo da programmi di soccorso, corrono il rischio di diventarne dipendenti e quindi di non uscire mai dalla povertà. Insomma, il CISP allarga sempre lo sguardo allo sviluppo oltre l’emergenza.
Devo all’incarico per il CISP il privilegio dell’accoglienza calda e squisita di Theresa Kachidamoto. Che prima di salutarmi mi mostra alle pareti le foto delle cerimonie più importanti, in cui indossa la pelle di leone che fino all’epoca di suo padre i capi portavano tutti i giorni: “Ora che siamo in democrazia siamo subordinati al Governo, ma un tempo c’eravamo solo noi capi, ed eravamo re”.
Questo reportage è dedicato a Paolo Dieci, Presidente del CISP, morto il 10 marzo nel disastro aereo avvenuto a pochi chilometri da Addis Abeba. Stava andando a fare il suo lavoro con quella calma passione per cui chiunque l’abbia conosciuto l’ha sempre, profondamente rispettato. Ciao Paolo.