The Memory of Women

LA MEMORIA DELLE DONNE

foto e testo di Laura Salvinelli

 

   Nel suo libro Le pietre degli avi (che sarebbe stato corretto tradurre delle ave) col suo talento straordinario per le storie Aminatta Forna racconta che cinque secoli fa una caravella battente la bandiera del re del Portogallo doppiò la curva del continente. Dopo un lungo periodo di bonaccia i venti ne ebbero pietà e la spinsero a sud-est verso la costa. Il capitano vide una serie di porti naturali e la ormeggiò. Quando i marinai si trascinarono a riva piegati dalla fame e con i capelli arricciati dallo scorbuto, non poterono credere ai loro occhi. Immaginatevi: manghi succulenti, esplosioni di carambole, avocado grandi come teste d’uomo. Pensarono di aver trovato il Giardino dell’Eden, e forse lo era, ma un Eden creato non dalle mani di Dio, bensì da quelle delle donne. La protagonista del libro torna in Sierra Leone dopo la guerra civile (1991-2002) e trova il giardino completamente devastato. Scopre che i tesori della sua terra sono nascosti nel posto più sicuro: nelle storie. E che la custodia delle storie, come la cura dei giardini, è lavoro delle donne. Aminatta Forna nasce nel 1964 in Scozia da madre scozzese e padre sierraleonese. La famiglia si trasferisce in Sierra Leone poco dopo la sua nascita. Il padre medico, diventato attivista politico, viene accusato di alto tradimento, imprigionato per anni e impiccato nel 1975. Aminatta va a vivere a Londra e scrive tre libri – The Devil that Danced on the Water, 2003, Ancestor Stones, 2006 e The Memory of Love, 2010 - in cui ricostruisce amorevolmente, con la massima cura, la verità su suo padre e la memoria del Paese attraverso le storie delle donne. Leggendo con passione i suoi libri, mentre mi preparavo per l’incarico di documentazione del lavoro di Emergency in Sierra Leone, mi sono accorta che nel suo terzo libro, che ha un’edizione italiana, Il ricordo dell’amore, e che è ambientato in un ospedale, l’autrice ringrazia proprio il centro di Emergency di Goderich (Freetown) per averle aperto il mondo della chirurgia. Non avrei potuto trovare una guida migliore per avvicinarmi alle donne della Sierra Leone.

   Goderich: Dio arriva. Quando? Secondo il popolo fula Dio è già arrivato, secondo i temne invece arriverà. C’è anche chi, come Sonia Johnson, colta e benestante nipote dell’unico sindaco donna di Freetown, Constance Cummings-John, che si definisce la “miglior paziente dell’ospedale”: più di 200 fra interventi e medicazioni, sostiene che sia l’ospedale di Emergency Dio arrivato a Goderich. Emergency pratica chirurgia di guerra per le vittime civili, ma rimane in Sierra Leone dopo 15 anni dalla fine del conflitto, che ha fatto 75.000 morti, mezzo milione di sfollati e un numero incalcolabile di feriti e mutilati. C’è stata l’epidemia di Ebola dal 2014 al 2016. Per ultima l’alluvione disastrosa dello scorso agosto. E soprattutto, c’è una guerra silenziosa che miete più vittime dei conflitti e di Ebola e delle inondazioni: la Sierra Leone è uno dei Paesi più poveri del mondo (181° su 186 nella graduatoria dell’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite), dove il 57% della popolazione vive con poco più di un dollaro al giorno, l’aspettativa di vita è di 50 anni, 161 bambini su 1.000 muoiono prima di raggiungere i 5 anni di età, 1 donna su 100 muore partorendo. Per questo Emergency rimane nella capitale col suo ospedale chirurgico - dove le 3 sale operatorie lavorano contemporaneamente giorno e notte, i 98 letti (compresi quelli per bambini) sono sempre occupati, nelle sale terapia intensiva, medicazioni e fisioterapia e nel pronto soccorso si trattano in media 106 pazienti al giorno – e quello pediatrico - dove si visitano 150 bambini al giorno - oltre al pronto soccorso di Waterloo e a quello di Lokomasama. L’ospedale è una cittadella con la sua farmacia, i laboratori analisi, gli uffici amministrativi e logistici, la sartoria che produce tutta la biancheria e i camici dello staff, dei pazienti e delle mamme dei bambini, la lavanderia, la cucina, la falegnameria, l’officina riparazioni, il centro smaltimento rifiuti, i container di stoccaggio e i generatori. Le medicine e tutte le cure e i servizi - d’eccellenza secondo lo standard occidentale - sono completamente gratis. Per me l’ospedale si conferma un eccellente osservatorio perché pieno di vita e di storie: un ottimo punto di partenza per un reportage.

   Incontro la dottoressa Christiana Thorpe nel suo ufficio al Ministero dell’Educazione, Scienza e Tecnologia a New England-Ville e nella sua casa, l’”Arca dell’Assunta”, rifugio per innumerevoli figlie adottate e ragazze aiutate. “Sono nata a Freetown nel 1949. Eravamo una famiglia numerosa con 8 figli. Sono cresciuta in uno slum con la nonna di cui porto il nome, una donna molto amabile, premurosa e generosa. La nonna mi ha insegnato che tutti sono creature di Dio, hanno dignità e vanno rispettati. Grazie a lei mi sento a mio agio con tutti, non mi sono mai sentita inferiore, e questo è stato un vantaggio nei diversi lavori che ho fatto, specialmente in un posto come la Sierra Leone dove le donne sono considerate di serie B. La nonna, lavandaia ed erborista, era sempre contenta e faceva tutto alla perfezione perché sapeva che tutto è ordinato da Dio, e si deve far bene per piacere a Lui, non alle persone. La accompagnavo al fiume a lavare i panni per i bianchi e poi me li caricavo in testa e andavo a consegnarli. Ero l’unica dello slum a frequentare la scuola. A casa le porte erano sempre aperte, e mi accorsi che mi piaceva insegnare quello che imparavo. Fui sconvolta nello scoprire che mentre io studiavo le mie amiche iniziavano a fare i figli a 13 anni. Non era giusto: decisi che sarei diventata insegnante per le ragazze. La religiosità della nonna e l’amore per l’insegnamento mi fecero prendere una grande decisione: feci il noviziato in un ordine di suore cattoliche irlandesi e presi i voti. Studiai all’università di Dublino e rientrai in patria, dove divenni preside di una grande scuola di Makeni, nel nord del Paese. Ero felice, ma allo stesso tempo iniziai a desiderare sempre di più di fare qualcos’altro per l’educazione generale, senza sapere ancora cosa. Andai in ritiro per 3 mesi per cercare di capire cosa Dio mi stesse chiedendo, e trovai pace nella decisione di lasciare l’ordine. Quando chiesi l’esonero dalla direzione della scuola, mi fu proposto di lavorare per il governo del militare Valentine Strasser, a 25 anni il più giovane capo di Stato del mondo. Sono stata Segretaria di Stato per l’Educazione nel 1992 e Ministro per l’Educazione dal 1993 al 1996, quando il governo è stato rovesciato dal successivo colpo di Stato, l’unica donna nel gabinetto dei Ministri. Continuai a lavorare per l’educazione delle ragazze con il ramo sierraleonese dell’organizzazione panafricana Forum for African Women Educationalists (FAWE) che avevo fondato e dirigevo dal 1995. Erano anni di guerra, aprivamo le scuole nei campi degli sfollati e ci prendevamo cura delle ragazze rapite e stuprate dai ribelli. Per anni abbiamo fatto counseling per loro e per le comunità da cui provenivano e che non volevano riaccettarle, le abbiamo aiutate a crescere i figli, le abbiamo formate in varie professioni, anche quelle considerate maschili tipo la falegnameria, che sarebbero state utili per trovare lavoro una volta finita la guerra, quando ci sarebbe stato bisogno di ricostruire. Tutte le ragazze ora sono sistemate e stiamo cercando i fondi per permettere ai loro figli di entrare all’università. Dal 2005 ho diretto la Commissione Elettorale Nazionale per due mandati. Anche in questo sono stata l’unica donna del Paese. Ora servo il governo come vice Ministro dell’Educazione, Scienza e Tecnologia. E’ stato l’insegnamento della nonna a guidare tutto il mio percorso”.

   Vengono per una foto di gruppo con le figlie Christiana, 17 anni, e  Salamazu Kargbo, 16 anni e mezzo, due delle donne che custodiscono la memoria delle tenebre della guerra civile. La storia di Aminatta Gbla Shariff, 34 anni, e quella di Marion Barrie, 34 anni, è la stessa, detta a due voci. Racconto con poche parole l’orrore non solo perché bisogna sapere e non dimenticare mai, ma anche per esprimere la più profonda ammirazione di fronte alla resilienza di queste donne. Oltre agli stupri usati come arma durante tutta la guerra civile, quando i ribelli occuparono Freetown rapirono centinaia di ragazze e le trascinarono nel loro inferno. Le ragazze furono stuprate in branco ripetutamente, drogate, costrette a far da serve, a prendere le armi, a partecipare alle più ferine atrocità contro le loro comunità. Molte furono uccise. Partorirono i loro figli in prigionia, dove rimasero per un anno almeno, o 3, fino alla fine della guerra. Marion: “il 6 gennaio 1999 i ribelli entrarono a casa mia e chiesero una ragazza. Io ero l’unica, e mi portarono via, con mia madre che piangeva. Mi stuprarono in gruppo ripetutamente. Mi fecero prendere le armi. Dovevo servirli, cucinare, portare i pesi durante i continui spostamenti. Partorii. Riuscii a scappare solo dopo più di un anno. A mia figlia ho detto che suo padre è morto. Sono sposata, ho un figlio di 2 anni. Purtroppo mio marito è a disagio con mia figlia e questo mi fa soffrire molto”. Aminatta: “sono scappata insieme a Marion. Lo shock peggiore è stato nel momento in cui sono tornata a casa, quando ho scoperto che mio padre e mia madre erano stati uccisi mentre erano alla mia ricerca, e i miei fratelli mi hanno ripudiata chiamandomi ribelle. Anche mia figlia è stata insultata ripetutamente a scuola, fino a quando, a 7 anni, mi ha chiesto il perché. Le ho raccontato la verità ma lei non mi ha voluto credere, anche perché mio marito è paterno e premuroso con lei come con nostro figlio di 7 anni . Ma penso che sappia. Quando sento sparare durante le esercitazioni militari, che sono soprattutto notturne, salto su dal letto pensando all’arrivo dei ribelli in città. Ho riconosciuto per strada un paio dei miei stupratori. A volte qualcuno mi chiama ancora al telefono”. Il numero dei bambini soldato della guerra civile sierraleonese è stimato tra 10.000 e 30.000. Il 30% erano ragazze.

   La dottoressa Jane Babadi è una pasionaria della pediatria e della Chiesa dei cristiani rinati. La ammiro mentre lavora “anima e cuore” nell’ospedale di Emergency di Goderich (dove il 95% del personale è locale) e la seguo in una messa, un evento fondamentale nella vita dei sierraleonesi. Quasi 4 ore di funzione - di cui almeno 3 cantate e ballate da una band musicale, un vescovo e 2.000 ferventi fedeli, tirati a lucido e appariscenti negli abiti della domenica – per centrare la vita sul suo vero significato e nutrire la speranza. “Sono nata nel 1945 in Nigeria da genitori sierraleonesi, primogenita di 7 fra fratelli e sorelle. Da piccola vedevo che mio padre dava a mia madre i soldi anche per le sue spese personali, e decisi che avrei lavorato per essere indipendente. Studiai medicina in Bulgaria grazie a una borsa di studio, sposai un uomo del mio Paese e rimpatriammo insieme. Iniziai a praticare come pediatra, nacquero le mie 2 figlie, poi arrivò la guerra e persi tutto: mio padre, mio marito, la mia professione, tutte le proprietà di famiglia. Tornai in Nigeria e arrivai a produrre e vendere il ghiaccio per 2 anni. Per fortuna mia madre mi aveva insegnato a mangiare con le posate a tavola come con le mani nella pentola, a camminare con le scarpe come a piedi scalzi. Sono rientrata a Freetown e ho ricominciato daccapo. Ho cresciuto da sola le mie figlie, una ora è ingegnere del petrolio e l’altra è all’ultimo anno di medicina, dopo aver lavorato come farmacista. Anche se qui c’è molta disoccupazione, le donne si danno da fare più degli uomini. Vendono arachidi, cibi cucinati, producono sapone, scarpe, borse, insegnano, aprono birrerie, producono gingerino e altre bevande… Lavorano e quando tornano a casa si prendono cura della casa e dei figli. Pagano le rette scolastiche. Penso che si debba avere autorità, dignità e rispetto, ma non orgoglio. Se cominci a comprometterti ti metti nei guai, specialmente con gli uomini. Ho due caratteri: mi comporto da donna e da uomo a seconda delle situazioni”. Le chiedo delle mutilazioni genitali femminili, praticate da tutte le etnie tranne i creoli (i discendenti degli schiavi liberati). Le donne mutilate fanno parte della società segreta detta Bundu o Sande e non ne parlano con gli estranei. Secondo l’ultimo rapporto UNICEF  aggiornato nel 2016 il 90% delle donne sierraleonesi sono mutilate, ma per quanto ho potuto verificare la stima è per fortuna lontana dalla realtà. La dottoressa Babadi sostiene che fino agli anni ’70 la maggioranza delle donne era tagliata, ma ora le ragazze lo sono molto raramente. Fra le decine di infermiere e medici a cui ho chiesto, una sola infermiera mi ha detto di aver visto un unico caso di mutilazione, un’escissione della clitoride.

   La storia della dottoressa Haja (titolo riservato alle musulmane che hanno compiuto il pellegrinaggio alla Mecca) Isatta Wurie brilla nell’equilibrio fra tradizione e modernità, ed è esempio della tolleranza religiosa della Sierra Leone, dove i credi musulmani (60%), cristiani (30%) e indigeni (10%) convivono amichevolmente. Classe 1961, laureata a Brighton e con vari master, dottorato e post-dottorato di ricerca nel Regno Unito, è manager insieme al marito dei prestigiosi Laboratori medici Ramsy per test in ematologia, bio-chimica, microbiologia e del DNA, che ha diretto da sola mentre il dottor Alpha Tejan Wurie è stato Ministro dell’Educazione, Scienza e Tecnologia (1996-2007). I coniugi Wurie hanno 2 figli, 3 figlie e 3 nipoti. La dottoressa mi accoglie nei suoi laboratori e nella sua magnifica casa nel quartiere residenziale Hill Station, una villa a due piani con i divani bianchi spostati verso le pareti per far spazio ai tappetini della preghiera, e il profumo di pulito del riso basmati e d’incenso al gelsomino. “Sono la primogenita di due famiglie importanti delle tribù fula e mandingo. Mio padre ha avuto due mogli ed è stato un prospero commerciante di riso e si è occupato di una miniera d’oro. Ho vissuto con mia zia che non poteva avere figli e mi ha insegnato a studiare il Corano mentre mio zio mi insegnava l’inglese. Sono andata in collegio dalle suore cattoliche dove ho studiato anche la Bibbia e il Vangelo. Quando vado in Chiesa prego onestamente anche lì, perché Dio è uno, ma a casa le preghiere sono musulmane. La religione ha influenzato la mia professione insegnandomi a essere indipendente perché l’unica persona di cui ti puoi fidare totalmente è Dio, e a migliorarmi senza scordare che ho una famiglia e una casa che devono essere benedette e ben curate, in cui mi realizzo. La religione è la priorità, la guida, la legge. La famiglia viene dopo. E subito dopo il lavoro. E’ attraverso il lavoro che divento importante nel mondo, ma è attraverso la religione che nutro la mia coscienza. Non mi considero privilegiata in assoluto ma ringrazio il cielo tutti i giorni per i valori che mi sono stati trasmessi dalla nostra tradizione, che è religiosa”.

   Infine mi aprono le porte di casa e delle loro storie Monjama Frances Musa e Beatrice Godwin, due donne della maggioranza che vive con pochi spiccioli al giorno. Monjama, 26 anni, vive col marito, 5 figli di cui uno adottato, la cognata e suo marito, in una casetta di zinco con una gran vista sull’oceano ma senza acqua corrente né bagno. Per i bisogni gli abitanti di Goderich usano la spiaggia. “Sono molto fortunata. Grazie a Emergency sono guarita da Ebola mentre il virus si portava via mio padre, mio fratello e mia sorella, e sono anche stata assunta come cleaner all’ospedale. Mentre l’uomo che mi ha contagiata, che assistevo ignara del pericolo, ha perso tutti. Mi ero ammalata, sapevo di aver trasmesso il virus a mio marito, che poi è sopravvissuto, a mio fratello e a mia sorella, vedevo andarsene via talmente tante persone che a un certo punto pensai che per me era meglio morire che vivere. Ma il bravo dottor Michael Mawanda mi ha incoraggiata, ed eccomi qui. La malattia era ancora più grave per lo stigma che creava, che c’è ancora. Quando ci siamo ammalati siamo stati cacciati di casa e mio marito, un falegname, è stato licenziato. La ditta cinese per cui lavorava ancora rifiuta di riassumerlo. Quindi col mio stipendio mensile di 600.000 Leone (77 Euro) ci viviamo in 7”. Beatrice, 45 anni, è una delle donne del mercato di Freetown, le regine indiscusse dei mercati che sostengono con la loro fatica le famiglie numerose, spesso da sole. Vive con la famiglia (sono in 6) nello slum delle “Shallow Waters” (acque basse), in una stanza di 3 metri per 4 col tetto di zinco, con la parete che li separa dai vicini che non arriva al soffitto, senza acqua corrente né bagno. Anche loro per quello usano la spiaggia. “Ho messo al mondo 6 figli e da quando mio marito se n’è andato, 20 anni fa, li ho cresciuti da sola. Una figlia morì a 12 anni. Si ammalò, la portai in un ospedale del governo ma non fui in grado di pagare le cure e tornò al creatore. Mi sveglio tutti giorni alle 4 del mattino e vado in spiaggia per l’arrivo delle barche dei pescatori. Prendo il pesce a credito, lo affumico e lo rivendo nei mercati. Il guadagno è scarso, a volte va male e ci rimetto. Verso le 4 o le 5 del pomeriggio per circa un’ora e mezza cucino cibo delizioso per i miei e per dei vicini, in tutto 12 persone. Possiamo permetterci di mangiare solo una volta al giorno. Cucino foglie di cassava e di patata, zuppa di verdure, riso, pesce, salsa di cipolle fritte. Mia figlia maggiore si occupa del bucato e con mio figlio delle pulizie di casa.  Alle 8 vado a letto. Anche la notte è dura: il tetto di zinco nella stagione delle piogge perde acqua e bisogna trafficare con i secchi. Entrano correnti d’aria, può far freddo o molto caldo. C’è sempre molto rumore”. Beatrice mi parla con voce roca, affaticata ma dolce come il miele. Mentre la fotografo vedo Mamma Africa.