LA MIA AFRICA
Reportage sulla giustizia minorile in Kenya
foto e testo di Laura Salvinelli
“L’hai mai vista una corte di giustizia? In Kenya sono state costruite in epoca coloniale e sono imponenti, fatte per intimorire. Puoi immaginarla dal punto di vista di un bambino? Quando entra in aula circondato dalla polizia penitenziaria, è così piccolo che io dall’alto della cattedra manco lo vedo”. Con questa immagine e una risata inizia l’intervista a Teresia Mumbua Matheka, uno dei primi magistrati per minorenni e alto magistrato della contea di Nanyuki, fedele al suo nome: Matheka nella sua madrelingua, il Kikamba, significa appunto risata. “I bambini sono sempre fuori luogo in un tribunale. A maggior ragione qui, dove non sono quasi mai difesi perché non esiste la figura dell’avvocato d’ufficio. Ho accettato con passione e impegno l’incarico di magistrato per minorenni, ruolo che non interessa a molti, perché richiede molta pazienza, tempo e motivazione personale. In Kenya dobbiamo affrontare tre principali ordini di problemi. Il primo è la mancanza di fondi per la difesa, la protezione e il recupero dei minori. I minori non sono protetti, e fra loro le bambine e le ragazze sono le più vulnerabili e a rischio di maggior violenza fisica e sessuale nelle strade come nelle stazioni di polizia. La maggior parte dei casi che affronto riguarda bambini che sono finiti per strada dove corrono ogni tipo di rischi per sopravvivere. Spesso sono arrestati perché non possono pagare il pizzo che i poliziotti pretendono per “proteggerli”. Bisogna salvare i bambini dalla strada o dalle famiglie abusanti. Invece vengono giudicati e ritenuti sempre colpevoli, anche perché non sono difesi e, che siano bisognosi di cura e protezione o in conflitto con la legge, mandati negli stessi istituti, che sono sovraffollati e incapaci di riabilitare. Il secondo problema è il conflitto per quello che riguarda i minori con le leggi islamiche, presenti sebbene subordinate alle corti superiori del Paese e limitate allo statuto personale, matrimonio, divorzio ed eredità all’interno della loro comunità. Come nel tipico caso dei matrimoni precoci: le ragazze musulmane possono sposarsi a 9 anni, ma il matrimonio è vietato per i minori di 18 anni in Kenya. Il terzo infine è il radicato attaccamento alla tradizione patriarcale dei consigli degli anziani, in cui non sono riconosciuti i diritti delle donne e dei bambini. Per farti un esempio: secondo loro una donna o un bambino che sono stati violentati sono sempre colpevoli, a meno che non siano aiutati da molti testimoni. Ma dove sono tutti questi testimoni degli stupri? E anche se ci fossero, la compensazione andrebbe al padre, non alla vittima. Questo genere di casi non raggiunge mai i tribunali, o se li raggiungesse la giustizia non potrebbe fare il suo corso perché appena seduti in aula i parenti si metterebbero d’accordo sulla compensazione al padre della vittima e il caso si concluderebbe. In questi consigli le donne non possono essere presenti, ma sono rappresentate dagli uomini di famiglia. I consigli degli anziani affrontano tutti quei casi che non possono raggiungere la corte, e la nuova Costituzione del 2010 ha iniziato il lungo percorso del loro rinnovamento affinché affianchino in modo rispettoso dei diritti umani e snelliscano il lavoro dei tribunali”. Conclude con fiducia: “La situazione ha iniziato a migliorare perché il Children Act del 2001 ha finalmente stabilito che i minori che si presentano di fronte alla corte sono innanzi tutto bisognosi di cura e protezione. Dunque, il mio dovere principale è la difesa dei diritti, degli interessi e del benessere dei bambini”.
Teresia Mumbua Matheka, il magistrato che ride di fronte alle difficoltà, nasce a Machakos (60 chilometri da Nairobi) nel 1964 in una famiglia di piccola borghesia in cui solo il padre, inserviente d’ospedale, era andato a scuola. La famiglia subisce una serie di gravissime perdite: due dei sei figli, la madre e infine il padre. “Così è la vita” commenta. La morte del padre avvenuta per incidente due settimane dopo la sua ammissione a una delle scuole superiori più prestigiose del Paese le avrebbe stroncato ogni ambizione di lavoro se non fosse stato per un’associazione benefica di donne industriali di Bristol che la seleziona per merito e le finanzia gli studi. Sposa un avvocato nel 1991 e fanno tre figli, ma il matrimonio non funziona. “Appartengo alla tribù dei Kamba, molto accomodante, in cui i valori tradizionali patriarcali si sono persi per strada, mentre per la sua, i Bukusu, l’uomo è il centro di tutto. Lui voleva che lavorassi come avvocato con lui ma quando sono diventata magistrato il mio ruolo ha creato forti conflitti a casa. Non riusciva a separare la vita familiare, a vedere la moglie dietro al magistrato, e la differenza gerarchica gli era insopportabile. Ho fatto di tutto per evitare di diventare come tanti casi che dovevo giudicare e di proiettare la mia vicenda privata sulle mie cause. Tutto ciò che riguarda i figli è sovraccarico di emotività: molti genitori li usano come se fossero grossi pezzi di terra o conti in banca. Abbiamo divorziato. Ho cresciuto da sola i miei tre figli, a cui si è aggiunta una nipote con un handicap, e la passione che ho per il mio lavoro è per loro fonte di ispirazione e forza. Sì, sono felice di me stessa, del mio lavoro e dei miei figli”.
“La maggior parte dei bambini negli istituti proviene da contesti familiari difficili, multiproblematici ed economicamente sulla linea della sopravvivenza. Si tratta di famiglie oberate da un accumulo di situazioni complesse: disoccupazione, povertà, numerosi figli (almeno 4), un contesto di vita al limite della legalità con una serie di fattori rischio molto forti: presenza di gang, droga, prostituzione, alcolismo, mancanza di strutture igienico-sanitarie adeguate. Quasi tutti i bambini che finiscono negli istituti sono scappati di casa, anche quelli in conflitto con la legge. I bambini che scappano di casa hanno un motivo serio e valido per farlo, in genere per proteggere la propria vita e per trovare un’opportunità che non hanno nell’ambiente familiare” mi spiega Diego Ottolini, Child Protection Manager dell’ ONG Cesvi, che vive in Kenya dove si occupa di protezione dei minori dal 1987. “Il carico dei figli va in genere sulla madre, e bisogna evitare il facile giudizio su di lei. Queste donne hanno un peso così grave sulle loro spalle che non riescono a farsi carico della propria vita, e di conseguenza per sopravvivere scaricano quella del bambino, diventando trascuranti se non abusanti. La famiglia tradizionalmente era molto contenitiva rispetto al disagio: fino agli anni ’60 in Kenya non esistevano gli orfani. L’urbanizzazione ha poi disgregato il sistema tradizionale. Qui a Nairobi le madri non hanno più il riferimento familiare: hanno più contatti che non sono di sangue e questo comporta grosse difficoltà per la gestione dei figli quando c’è un problema. Il bambino è abbandonato a se stesso, e si abitua a un sistema di vita con frequenti rapporti esterni. I suoi bisogni di base lo portano ad andare in cerca di cibo, e progressivamente ad allontanarsi dalla famiglia. Quando è capace di andare sulle sue gambe, a 5-6 è diventato un bambino di strada. Sono dei bambini anche forti, in un certo senso, con una certa tempra, perché non è facile vivere per strada, con tutta l’esposizione ai rischi e alle violenze che questa comporta. Non bisogna dare la colpa alla mamma o al bambino o al diavolo, come sarebbe la tendenza, ma cercare di capire le radici del problema. Il rubare, per esempio, è un sintomo ma non rivela la malattia, e noi siamo come dei dottori che vogliono individuare e curare la malattia. Bisogna inoltre far capire alla mamma e al figlio che non sono soli perché c’è qualcuno che li aiuta, e che c’è una direzione, non solo un’attenzione, anche un’opzione”. Come?
Il progetto di Cesvi per il supporto al sistema della giustizia minorile, finanziato dall’Unione Europea, sostiene il governo locale nello sviluppo e nell’applicazione di riforme con lo scopo di ridurre la violenza di cui i minori sono vittime. Opera con una serie di interventi che vanno dalla riduzione del tempo di permanenza dei minori nelle stazioni di polizia, tentando di renderlo meno “abusante”, al supporto legale nel loro percorso con la giustizia tramite avvocati pro bono. Una componente fondamentale è la formazione tecnica in counselling e strategie educative rivolta al personale governativo, dai magistrati minorili a più di 400 operatori degli istituti. Sono stati realizzati anche interventi per rendere alcune infrastrutture “child friendly” all’interno delle stazioni di polizia, delle corti e degli istituti. All’interno degli istituti, si è impostato un lavoro sui casi che include valutazione, pianificazione e interventi con le famiglie tramite un sistema di “conferenze familiari” per il reinserimento a casa con supporto psicosociale, scolastico ed economico di bambini e genitori mettendo a disposizione piccoli grant. Infine, Cesvi sostiene il governo - dal livello nazionale a quello di contea - per coordinare e integrare il lavoro delle agenzie governative del sistema giudiziario, attualmente frammentato e sconnesso, e per collegare i servizi istituzionali a quelli del territorio.
Secondo un’accurata ricerca di Cesvi del 2014, nel corso di un anno sono circa 6.000 i minori detenuti. Il sistema giudiziario keniano fa sì che di fatto i ragazzi bisognosi di cura e tutela e quelli in conflitto con la legge stiano insieme negli stessi istituti. I minori possono essere incriminati da 10 anni in su ma anche - accade raramente - da 8 anni, se il giudice li ritiene capaci di intendere e volere nel momento del crimine. I crimini comprendono il furto, l’uso e spaccio di droga, la prostituzione, la rapina a mano armata e l’omicidio. Ma anche il vagabondaggio e il marinare la scuola dell’obbligo, per cui la stragrande maggioranza dei minori rinchiusi negli istituti sono bambini e ragazzi di strada scappati di casa. A volte, d’accordo con le famiglie, i minori si accollano la responsabilità dei crimini più gravi per proteggere membri della famiglia, perché il massimo della pena prevista per i minori è di tre anni, anche se poi in realtà, specie nei casi più gravi, i tempi di detenzione nelle case di custodia cautelare, dove vengono tenuti in attesa della sentenza definitiva del giudice, possono essere protratti per anni. Il riformatorio in cui sono state scattate le foto è di massimo livello, e ospita ragazze incriminate dal vagabondaggio all’omicidio.