Congo

AFRICA MAMMA MIA - FIKIRI E LE ALTRE

foto e testo di Laura Salvinelli

 

 

   Sono passati quasi dieci anni dall’inizio della guerra civile che ha portato alla fine del regime di Mobutu Sese Seko, all’ascesa e all’assassinio di Laurent Desiré Kabila, a quella che è stata definita “la guerra mondiale africana”, e soprattutto alla morte di circa 4 milioni di persone, e a continue violazioni dei diritti umani. La Repubblica Democratica del Congo è sempre infestata da numerose milizie di ribelli, e da un governo ancora transitorio di politici inetti, corrotti e/o crudeli, capaci solo di rappresentare i loro interessi, e a mantenersi al potere. Dopo tanti rinvii e una nuova legge elettorale, che prevede il decentramento del potere, con autonomia delle regioni, il 30 luglio dovrebbero finalmente svolgersi le elezioni presidenziali e legislative, le prime veramente libere dall’Indipendenza del 1960.

   Nell’Est del Paese le varie milizie di ribelli – appoggiate da Ruanda e Uganda – continuano a massacrarsi tra di loro e a commettere le peggiori atrocità contro la popolazione civile. Nonostante l’ultimatum per il disarmo imposto alle milizie di tutti gli schieramenti dalle autorità congolesi e dalla Monuc (il distaccamento dell’Onu nel Paese), sono in tanti a sostenere che molti politici vicini all’attuale Presidente Joseph Kabila in realtà lavorino contro il disarmo, e che la Monuc sia responsabile del fallimento del processo di pace. Intanto nell’Ituri muoiono più di mille persone al giorno per esecuzioni, stupri, abusi di ogni tipo, o per malattie ed epidemie nelle tendopoli dei campi degli sfollati. E’ “la più grande crisi umanitaria del mondo”, ma anche se occupasse un'altra posizione di queste classifiche create in mondi lontanissimi, non sarebbe certo meno grave. 

   Zukoolier, ossia “svegliati e vieni a mangiare”: è così che nella lingua shi della tribù Bashu, la lingua di Bukavu (Sud Kivu), le donne chiamano i loro uomini. La guerra ha portato sofferenze terribili alle donne – solo nella regione del Sud Kivu, tanto per fare un esempio, più di 100.000 donne sono state stuprate – ma anche un’inversione di ruolo nella famiglia e nella società. E’ nato un movimento molto attivo di associazioni di donne e per le donne che mi sembra degno di attenzione, specialmente in un Paese così martoriato. A queste donne coraggiose va tutta la mia ammirazione, e l’augurio di andare lontano come Aurélia Bitondo, che di strada ne ha fatta da quando militava nelle associazioni delle donne contadine del Kivu: ora è vice-governatrice della Provincia del Sud Kivu.

   Fikiri ha 30 anni e 3 figli. Lavora in un centro di un’organizzazione di Bukavu che offre accoglienza a donne vulnerabili: violentate, vedove, Pigmee, portatrici di handicap o malate di aids, e agli orfani. Suo marito era militare, ma durante la guerra ha disertato, ed è sparito per sempre. Oltre che dei suoi figli, si occupa anche dei 5 orfani di sua sorella, morta insieme al marito nel massacro di Kassika. Nel 1997 una truppa di ruandesi ha invaso e distrutto quel villaggio, e ucciso tutti i suoi abitanti, “anche il prete e le capre.” I nipoti, che durante l’invasione si trovavano nella brousse (tipo di savana), l’hanno scampata.Tutte le donne del centro ricordano con commozione il massacro di Kassika.

   I detriti neri portati dall’ultima eruzione del vulcano Nyiragongo arrivano fin sulla pista dell’aeroporto, e sono la prima immagine che si ha di Goma (Nord Kivu), insieme ai bambini che corrono fin sotto l’aereo, rischiando incidenti che capitano di tanto in tanto, e ai militari dell’esercito congolese affamati e con gli occhi iniettati di sangue che vengono a chiedere soldi. L’eruzione del Nyiragongo del 2002 ha aggiunto rovina a un paese allora già dilaniato da 5 anni di guerra civile. E’ camminando su questi detriti che Bintu mi ha raccontato la storia di una sua amica che, caduta in un’imboscata, è stata violentata da una banda di 7 uomini che vivevano nella brousse. Il capo l’aveva scelta per tenersela con sé. La donna è riuscita a scappare, ma non a rivedere i suoi figli, perché il marito l’ha ripudiata. E, quando pensavo che fosse tutto, Bintu mi ha raccontato di sé.  E’ stata violentata quando aveva 17 anni. Il 1° mese è stato terribile, ma ha deciso che comunque fosse andata, si sarebbe assunta la sua responsabilità. Non potendo più tornare a casa dopo quello che era successo, andò a stare dalla famiglia del “marito” , e la vita divenne infernale. Il marito la riempiva di botte, e i suoceri erano i peggiori che si possano avere. Era arrivata a vomitare sangue per le botte, e si era ammalata di cuore, a forza di tenersi tutto dentro. Anche se aveva trovato lavoro e portava i soldi a casa, i maltrattamenti continuavano. Andava a lavorare con i segni delle botte, e diceva che era caduta o che aveva avuto un incidente in moto. Ma per fortuna, grazie alla solidarietà di una donna, ha cominciato a raccontare le sue pene, e da quel momento ha cominciato a rimettersi in piedi. Alla fine, tre anni fa, ha avuto il coraggio di prendere con sé i figli, e di lasciare la casa del marito. E’ stata dura, perché è orfana e ora deve mantenere 3 figli e anche una sorella piccola. Ed è ancora dura, ma ora si sente più forte. E’ molto bella Bintu, ha gli occhi intelligenti e malinconici, e di matrimonio non ne vuole più sapere. Poco prima di arrivare in ufficio, si rompe un sandalo sulla strada piena di pietre nere aguzze, ma rimane paziente come sempre.

   Kinshasa è abitata da 8-9, forse 10 milioni (nessuno sa la cifra reale) di affamati che aspettano con speranza e tante preoccupazioni le prossime elezioni. Mentre i media cercano, a costo di sprofondare nel grottesco, di dare un’immagine rassicurante della città, per strada si percepisce una fortissima tensione, che a gran fatica, forse si riuscirà a tenere sotto controllo fino alla data del voto. E se poi le elezioni non andassero come sperato? Chi terrebbe a bada l’esercito?  I militari guadagnano 7 dollari al mese, e sono pieni di rabbia.  L’attuale governo viene chiamato “un mostro a cinque teste”, riferendosi al Presidente e ai suoi 4 vice. C’è chi sostiene che Joseph Kabila non sia il figlio di Laurent Desiré. Vero o falso che sia, chiunque ne parla come di un fantoccio incapace di prendere decisioni da solo. Eppure le previsioni lo danno come favorito.

   Deborah ha una quarantina di anni, ed è l’unica, coraggiosa, tassista donna di Kinshasa.

   Viveva a Kisangani, quando nel ’98 è arrivata la guerra. “Non te lo puoi immaginare. Correvo nella brousse con un catino in testa. Una pallottola l’ha traforato, mi sono sentita tutta la vibrazione addosso. Tutti scappavano. A un certo punto ero seduta vicino a un’altra donna, e una pallottola le prende il piede e si conficca per terra. Ma non avevo paura di morire, ero angosciata perché non trovavo i miei figli. C’erano i morti a terra, e i maiali che se li mangiavano, perché nessuno poteva seppellirli. Mio marito l’ho perso per sempre, ma i miei 4 figli li ho ritrovati dopo qualche giorno.”

   La guerra per lei è stata l’occasione per una profonda, positiva trasformazione.  “La mia vita è cambiata. Prima ero una donna che viveva in funzione del marito e della famiglia. Ma dal momento in cui sono sopravvissuta, ho preso coscienza che la vita è un grandissimo dono, ed è tutta nelle mie mani. Ho cominciato ad accogliere tante altre donne, rifugiate come me a Kinshasa, e insieme abbiamo cercato modi per non perderci. Ho visto troppe donne finire nella prostituzione per un pezzo di pane. Ho capito che non bisogna perdere tempo a lamentarsi, ma che bisogna rimboccarsi le maniche e riprendere il controllo della propria vita.”

   Il mio osservatorio su Kinshasa è nella Missione dei Comboniani del quartiere periferico (qui detto comune) Kimbanseke, una delle roccaforti del partito di opposizione dell’Upds (Unione per la democrazia e il progresso sociale). Lo considero un osservatorio privilegiato perché, nonostante rimanga dell’idea che l’evangelizzazione e il proselitismo siano una forma di colonizzazione, i padri mi sorprendono ogni giorno per la loro libertà di visione della realtà, e per le loro idee piuttosto radicali. Inoltre, mi dà la possibilità di stare nel “quartiere dei banditi”, dove chi lavora per l’Onu non mette mai piede. 

   Per compensare in piccola parte la frustrazione di non poter andare per strada a fare foto (da quando il paese è stato militarizzato, ci vogliono permessi costosissimi per fotografare, e la gente che non si conosce in questo caso sembra ben disposta a collaborare con poliziotti e militari), posso solo tentare di farne una sommaria descrizione. 

   Kimbanseke è il quartiere più grande di Kinshasa (ci abitano circa 700.000 persone), è stato costruito nel 1960 e dista 35 km dal centro della città. Ci sono la strada principale, detta la Prince, e le strade che la tagliano e che si addentrano. La Prince è più o meno asfaltata, piena di buche e voragini, e percorsa al centro da mezzi di trasporto stracarichi, e ai lati da flussi continui di gente a piedi. Spesso qualche mezzo ha un pneumatico a terra, o è in panne, e se si tratta di un affollatissimo minibus viene spinto a mano con tutte le persone dentro. Chi ha pagato il biglietto (caro), ha diritto a essere trasportato anche se il mezzo si rompe. Ma non se arriva qualcuno più importante, come per esempio un poliziotto. Allora senza fiatare gli cede velocemente il proprio posto e parte all’arrembaggio per trovarne un altro. D’altronde, anche i poliziotti guadagnano 7 dollari al mese, e integrano la paga con mazzette e privilegi. Questi minibus non sono sufficienti per trasportare tutta la gente, folle che vanno a piedi ai lati della strada, e che cercano di ottenere passaggi dagli altri veicoli. 

   Tutte queste persone non vanno a passeggio. Vanno a lavorare o a fare le loro cose o dove sperano di poter fare qualcosa. Le distanze sono enormi, e magari stanno fuori tutto il giorno: c’è anche chi parte a piedi alle 4 del mattino per raggiungere altri quartieri. Quando escono, portano sempre con sé un sacchetto di plastica chiamato on ne sait jamais (non si sa mai): se va bene al rientro c’è dentro qualcosa da mangiare per il resto della famiglia. Se no, si spera che gli altri abbiano già trovato qualcosa. Qui si vive alla giornata, e si mangia quel che c’è una volta al giorno. 

   Per strada c’è tutta la vita che scorre. Ci sono quelli che vanno a lavorare e i disoccupati, gli studenti e le prostitute, i banditi dall’aria strafottente, vestiti da divi di glam-rock, i ragazzini che stanno sempre a lavorare e qualche volta giocano, i comizi dei Kimbanguisti, i cortei funebri e gli sportivi. In continuazione gruppi di studenti inferociti per la mancanza di mezzi, assaltano i camion di passaggio. Se il camionista oppone resistenza viene malmenato e gli viene requisito il mezzo. Altrimenti si vede guidarlo stracarico di studenti che, forti del loro numero, si fanno portare dove decidono loro. E’ un vero e proprio “assalto alla diligenza”. I poliziotti non possono dire niente perché gli studenti sono in gruppo e in quel momento sono più forti di loro. Se reagissero anche loro potrebbero essere malmenati, oppure trovarsi la casa saccheggiata. E, soprattutto, i poliziotti non sono onesti, quindi meglio chiudere un occhio e lasciar passare il camion assaltato.

   Gli edifici ai lati della strada, a parte chiese e missioni, sono quasi tutti affittati da attività commerciali. Sono negozi e botteghe di ogni genere, farmacie, carrozzerie, bar, e numerosissime pompe funebri stipate fino al soffitto di bare, col modello più appariscente in primo piano aperto in bella vista, e le vistose corone di plastica esposte fuori. Di fronte ai negozi, proprio sul ciglio della strada, ci sono i banchetti, e anche lì si può comprare di tutto, dalle schede telefoniche ai chiodi usati, piegati e arrugginiti. Una donna che vende per esempio farina di manioca sta lì tutto il giorno, anche fino a tardi, e se le va bene, guadagna un dollaro.

   Sulla Prince passano spesso cortei funebri con la bara e la processione di gente che suona, canta e balla bella musica. Qui l’ultimo viaggio è considerato molto importante, e deve essere degnamente celebrato. La bara è trasportata a mano fra i sobbalzi dei danzatori, o sul primo mezzo a disposizione, generalmente l’autoambulanza, che aggiunge la sua sirena agli strumenti della fanfara. A volte i morti vengono messi in mezzo alla strada sotto un gazebo. Il feretro ha delle parti in vetro, così tutti possono vedere chi c’è dentro, e dargli l’ultimo saluto. Pare che al momento dell’interramento la bara venga lasciata un po’ aperta, per facilitare l’uscita dello spirito del morto, che si crede fermamente continui a vivere insieme a quelli che restano.

   Le strade che partono dalla Prince e si addentrano sono fatte di sabbia, e vi sono conficcati dei vecchi copertoni o pezzi di carrozzeria per impedire che durante la stagione delle piogge diventino torrenti. Non c’è corrente né elettricità. L’acqua si prende dai pochi pozzi che ci sono, ed è causa di liti furibonde per le precedenze. Mama Mafuta ha la fortuna di avere nel suo cortile un rubinetto da cui la notte ne esce un filo. Si sveglia all’una, e per raccogliere tutta l’acqua che serve alla famiglia, sta in piedi un paio di ore, ma anche tre o quattro quando deve fare il bucato. A terra, tutta una discarica: come nel resto della città non esiste alcun servizio statale di nettezza urbana. Sta ai suoi abitanti, quando non ne possono più, di scavare una buca per sotterrare i rifiuti, o fare un fuoco per bruciarli.  Kin la belle (Kinshasa la bella) è diventata Kin la poubelle (la pattumiera). 

   Le case sono tutte simili, a un piano solo, e tutte con cortile. Anche qui la gente preferisce stare all’aperto, nel cortile, a lavorare o a riposarsi. Siccome non ci sono muri né recinti, tutto è in vista. Mentre le donne pestano i trucioli di legno per preparare il combustibile per cucinare, i bambini portano i catini e i bidoni di plastica con l’acqua, le ragazze si fanno le treccine. Degli uomini sporchi di grasso riparano carcasse di automobili insabbiate nei cortili, fra i polli e i panni stesi. C’è anche chi suona una chitarra da solo, più in là c’è invece un vero e proprio gruppo con tre strumenti e amplificatore collegati a una batteria, mentre i ragazzini giocano a pallone. Dalle case ogni tanto esce forte l’odore di chanvre (marijuana locale). Con le attuali difficoltà, purtroppo i proprietari iniziano a dividere i cortili e a costruire nuove case. Se questo fenomeno non si ferma, il quartiere diventerà come le altre bidonvilles della città.

   Considero anche un privilegio poter lavorare per una onlus dalla struttura leggera ma molto attiva, la Fondazione Pangea, che lavora in collaborazione con le associazioni locali a favore del riscatto economico e sociale delle donne, in Paesi che, usciti da situazioni di emergenza, devono iniziare il percorso di ricostruzione. Qui a Kimbanseke, la Fondazione Pangea con il progetto “Makita” sostiene il centro di promozione femminile della Fondazione Esengo (Gioia), congolese, dove ragazze in difficoltà possono ricevere un'istruzione e una formazione in sartoria, e aiuta la scuola materna ed elementare e l’orfanotrofio per i bambini stregoni del centro Mobikisi.

   Makita è una dei tantissimi ndoki, bambini stregoni. Basta avere un handicap, o essere un po’ strani o difficili, oppure venire al mondo in una famiglia in cui non se ne può più di avere figli. Basta che avvenga una delle infinite disgrazie che arrivano sempre, e che un féticheur, o qualcuno della famiglia, o anche solo un conoscente istillino il dubbio che sia stata colpa del bambino, ed è fatta. Il bambino è sicuramente un temuto ed odiatissimo stregone, uno iettatore, abitato dal maligno, causa di guai e disgrazie per tutti quelli che lo circondano. Viene torturato per tentare di fargli espellere lo spirito maligno (“più soffre, meglio è”), oppure abbandonato in mezzo alla strada. La credenza nella stregoneria ha radici forti e profonde in questa parte di mondo.

   Makita ha 8 anni. Sia lei che suo fratello erano stati dichiarati ndoki, colpevoli della morte della loro mamma. Suo fratello è morto sepolto vivo, affogato nel pozzo in cui era stato rinchiuso. Lei cominciarono a torturarla a un anno di vita, col peperoncino negli occhi e col fuoco. Avevano deciso di bruciarla viva, ed avevano già preparato la fossa per sotterrarla. Ma le è andata bene. Una vicina di casa se n’è accorta, è corsa a chiedere aiuto, e la bambina è stata messa in salvo. Dopo un mese e mezzo in ospedale, nel 2000 è arrivata al centro Mobikisi. Ora va a scuola e spera in un bel futuro in cui farà la cuoca e viaggerà.

   Espérance è arrivata nello stesso centro nel 2004, e soffre ancora moltissimo. Ecco la sua storia: è la seconda di 5 figli, unica femmina. Quando le muore la mamma, il papà si risposa, e la nuova moglie lo convince che la bambina è stata la causa della morte della mamma, che “se l’è mangiata”. Il padre la chiude dentro casa, senza cibo, acqua e luce, le fa mangiare merda e le piscia in bocca, le brucia il corpo e la testa, le procura danni fisici e psicologici che chissà se sarà possibile curare. Quando i missionari sono andati a liberarla, hanno dovuto violare la proprietà privata del padre, e si sono fatti accompagnare da un fotografo che ha documentato tutta l’operazione. Hanno portato poi le foto a un magistrato donna per accusare il padre, ma vedendo i segni di tortura, questa donna ha detto: “ma che accusa, è evidente che si tratta di una strega!” Espérance ha 16 anni, ma è ancora una bambina.

   Blanche è una delle insegnanti del corso di sartoria. “La vita di tutte queste ragazze è difficile, perché non ci sono i soldi per mangiare, per vestirsi, per studiare, per andare dal medico. Io ci metto 2 ore per venire a piedi qui, e per altro queste strade sono pericolose, bisogna sempre fare attenzione alle aggressioni. La mia speranza è che le donne siano sempre più forti e più dure, perché sono ormai loro a dover mandare avanti la famiglia.”

   “Vengo dal Bas-Congo. E’ molto lontano da qui.” Non riesce neanche a spiegare dove sia, in realtà è la provincia confinante con Kinshasa che dà sull’oceano. Qui le distanze si calcolano col tempo che ci si mette a percorrerle. “Mio padre ha lasciato mia madre, si è preso un’altra donna, e mi ha portata qui. Mamma è rimasta laggiù, e io non l’ho mai più vista, né ho più avuto sue notizie. Ora ho 23 anni, e l’ho persa da 11. Forse è morta, chissà, c’è stata anche la guerra. La mia matrigna ha cominciato a trattarmi male, e a 19 anni mi ha cacciata di casa. Così, sono finita a vivere per strada, è stato un periodo terribile. Ero sempre affamata, se incontravo qualche conoscente riuscivo ad avere qualcosa da mangiare, se no niente. Ma per fortuna non ho subito violenze, anche perché sono stata molto severa. Dopo 6 mesi di questa vita mia zia paterna è venuta a cercarmi, e mi ha accolta in casa sua, dove abito ancora. Il mio sogno adesso è di riuscire a comprarmi una macchina da cucire, per aprire una piccola sartoria.”

   Siwa-Thèrese è una delle insegnanti della scuola del centro Mobikisi. Dopo le lezioni, prepara da mangiare agli ndoki che vivono nel centro (per una pagnottina di pane al giorno), dà lezioni pomeridiane di alfabetizzazione agli adulti (per un sacchetto di zucchero al mese), e vende il pesce secco a pezzi. 

   “Per le vedove è sempre più difficile! Siamo completamente sole! In realtà nel passato stavamo tutti molto meglio. C’era più cibo, e le famiglie funzionavano meglio. Ora gli uomini, un po’ per volontà, un po’ per mancanza di possibilità, non si vogliono più sposare. Mettono incinta le ragazze, e vanno a vivere da loro. Mario (il nome viene da una canzonetta che ha descritto un modo di fare molto comune, ed è andata subito di moda) è l’uomo di questi tempi, un parassita che vive sulle spalle della donna, incapace di prendersi le sue responsabilità, uno che pensa solo a restare libero.”

   L’ultimo ritratto è quello di Antoinette, che al contrario di tutti gli altri ndoki dagli occhi tristi, ha lo sguardo forte e davvero spiritato. Ha 17 anni e la solita storia degli altri stregoni. Orfana, viveva con una cugina. Quando la cugina abortisce, viene accusata di essere la causa della morte del bambino, e quindi anche per lei inizia il supplizio delle torture col fuoco e botte a non finire. Ma Antoinette è uno spirito ribelle, e resta libera. Non si è adattata neanche alla comunità del centro Mobikisi. E’ sempre a caccia di guai. Mi incanta con la sua poesia: “Chi sono io, un ramo?” “Mio padre è forse un albero, mia madre una forchetta?” (cioè: “Non conto niente?”) E’ alla sua forza che penso quando non ne posso più di sentire storie di troppa miseria.

   L’80% della popolazione totale della Repubblica Democratica del Congo vive con 25 centesimi di dollaro al giorno, e 1.200 calorie. A Kinshasa su circa 10 milioni di abitanti, 1.400.000 hanno impieghi statali, che sono pagati 7 dollari al mese. Fra questi, gli impiegati delle poste non ricevono lo stipendio da 45 mesi. Tutti gli altri, tranne una piccolissima minoranza di ricchi (nessuno sa quanti siano), sono disoccupati. Nei pillages (saccheggi) degli anni ’90, tutte le fabbriche, le infrastrutture, i servizi della città furono distrutti dai militari e dal popolo, e da allora non sono più stati ricostruiti. 

   Sì che il Paese abbonda di favolose ricchezze: diamanti, oro, coltan (serve per le batterie di telefoni cellulari e computer), rame, caffè, legnami pregiati, cobalto, petrolio… Ma fra le ricchezze del Paese e i suoi abitanti ci si sono messi in mezzo tutti gli interessi e la cattiveria del mondo, ed è facile vedere chi abbia avuto la peggio.