INDIANA
Reportage from the Biggest Women’s Trade Union (SEWA)
with texts by Mariella Gramaglia
Indiana was shown for the first time in 2008 in Rome, Palazzo Incontro. The exhibition is part of the same project which includes Mariella Gramaglia’s book INDIANA. Into the Heart of the Most Complicated Democracy in the World (Donzelli editore, 2008) with a portfolio of photos by Laura Salvinelli.
Heir of the Gandhian philosophy of change through non-violence, the largest Indian women’s trade union Sewa (Self-Employed Women’s Association), was founded in 1972 by Ela Bhatt. With 500.000 members in Gujarat and 800.000 in India, all poor informal women workers, the trade union struggles for empowering women: for securing them the bigger safety of formal work, and for rendering them economically independent both individually and collectively, and able to assume the responsibility of their own actions. Poor but so many, these women, who add the suffix bhen (sister) to their names, opened their own bank in 1974, and were the pioneers of micro credit.
In India, 93 workers out of 100 belong to the informal sector. Hindu low-castes women and Muslims make the humblest works. They are paper pickers, cart pullers and load bearers, bidi (the Indian cigarettes for the poor), bangle, incense stick and kite makers, dai (midwives), tinsmiths, tailors, embroiderers and cloth printers, wick rollers, cooks, housemaids and washerwomen for houses, offices and hospitals, milkmaids and cow dung (fuel) collectors, and makers of numberless other jobs at home or in the streets… to them and to the women who have been able to unite and organize all them this reportage is dedicated.
Original texts by Mariella Gramaglia
Sewa, il sindacato autonomo delle donne indiane, è un fenomeno unico al mondo. Conta più di un milione di iscritte. Oltre a tutelare i diritti delle lavoratrici, è anche un movimento di liberazione delle donne. Nel 1974 ha inventato la prima banca di microcredito. Organizza una rete creativa di solidarietà mutualistica per le madri e le vedove, centri per la salute, progetti di alfabetizzazione, cooperative di produzione: un'ingegnosa comunità di welfare di cui le iscritte sono protagoniste.
Negli ultimi anni collabora con Progetto Sviluppo, l’Organizzazione Non Governativa della Cgil.
L'acronimo significa: Self Employed Women's Association. Un nome che implica orgoglio del lavoro, mai marginalità, nemmeno per le più povere: materassaie, ricamatrici, sigaraie, riciclatrici di rifiuti, fabbre ferraie, muratrici e manovali, vetraie, vasaie, le infinite industriose protagoniste dell'India degli slum e dei villaggi.
L'energia sociale e spirituale di Sewa affonda le sue radici nella tradizione sindacale gandhiana fin dal 1918. La rottura femminista, l'uscita dal sindacato dei tessili e la crescita di una leadership autonoma sono del 1981.
Laura Salvinelli non si limita a documentare le donne di Sewa, interroga invece la forza dei loro visi e dei loro sguardi. Nei suoi reportraits, ritratti di distanze e di similitudini, si affida a un dialogo fra pari. Il corpo, fiabescamente femminile, non è mai negato. La dignità è nei gesti. L'autorevolezza negli sguardi lucenti delle leader e delle lavoratrici.
Ferriere
“L'uso gujarati di chiamare una donna ben, sorella, ovviamente non è senza conseguenze; sembra instillare nelle relazioni un senso latente di sorellanza”. Lo scrive Ela Bhatt per spiegare la fortuna, nelle fila di Sewa, dell'antica usanza popolare della regione di Ahmedabad di accompagnare i nomi propri femminili con il suffisso ben. Il termine inscrive l'altra nella solidarietà, nell'attenzione, ma le conferisce anche statura, dignità. Anche se appartiene al mondo dei più umili.
Come i lavoratori del ferro, un lavoro privo di qualsiasi norma di sicurezza. Nelle ferriere le donne setacciano i residui di ferro, ne respirano la polvere, lavorano al buio. Gli uomini fondono il metallo vestiti di pochi stracci, il dothi arrotolato sui fianchi, le infradito di plastica ai piedi. Il caldo è da girone infernale e l’aria è irrespirabile. Ma l'antinfortunistica, la sicurezza del lavoro, in India sono un lusso ignoto. La vita dei poveri vale poco. Si sale a piedi nudi sulle impalcature dei cantieri - spericolati quadrilateri di bambù intrecciato e annodato. Si perde la vista fissando senza protezione il bianco lucente delle saline nelle distese del Kachchh. E si muore anche nei luoghi di produzione “moderni” e globali, quelli delle zone a sviluppo speciale, dove assai di rado i lavoratori hanno qualche potere di controllo su ritmi, orari e prevenzione degli infortuni.
Sigaraie di bidi
Il bidi è la sigaretta indiana dei poveri. Costa sei rupie (dieci centesimi di euro) a pacchetto. Nessuno che abbia fatto un po' di fortuna fumerebbe mai un bidi.
Il gruppo che lavora all'ombra di una veranda dello slum di Dudhisswar, tutto dipinto intensamente di blu e protetto da un piccolo tempio dedicato ad Hanuman, è formato da sei donne. La prima pulisce e raschia le foglie esterne di tendu che raccoglieranno il tabacco; la seconda definisce le misure con cui dividere le foglie e le taglia; la terza e la quarta riempiono e arrotolano i bidi; la quinta lega ogni bidi con un filo rosa ciclamino e la sesta, con un secondo filo, unisce un pacchetto di venticinque.
Fino alla fine degli anni settanta esistevano i tabacchifici e i sigarai erano uomini. Oggi, con la deindustrializzazione di molte delle produzioni tradizionali, è un lavoro svolto a domicilio da circa 5 milioni di donne e bambini. Sewa organizza circa diecimila sigaraie ad Ahmedabad e, in questo ambiente, ha condotto lotte memorabili. Nel 1987 è riuscita a ottenere che venisse rispettato il salario minimo previsto da una legge di vent'anni prima e si è battuta perché le sigaraie avessero una carta di lavoro formale e un centro medico per la prevenzione delle malattie professionali. Spesso tutta la famiglia respira il tabacco e i bambini, dopo la scuola, si accoccolano sul pavimento e prendono il filo e le foglie di tendu tra le mani.
Ela Bhatt
"Per me il lavoro è il punto cruciale, la vera nobiltà di ogni vita. Anche Dio lavora. Secondo lo stesso principio del sole: il sole scalda, l'acqua produce le nuvole, cade la pioggia, crescono le coltivazioni e il primo gruppo di spighe viene offerto nei templi. Ogni cosa che la natura dà, va restituita e curata. Se abbiamo più di quello che ci serve non è karma, ma nutrimento del peccato. La semplicità è il più alto valore".
Si conclude così il mio lungo colloquio con la grande e minuta Ela Bhatt, sedute insieme sulle pietre calde, grigie e rosate, dell'ashram di Gandhi.
Potente nella volontà e semplice nel distacco, Ela Bhatt non è più segretaria generale di Sewa dal 1994: “Sewa non è la proprietà di mio padre che ho ereditato: del resto chi è un leader se non fa crescere altri leader? Io non ho perso nulla”.
Gandhiana fin dall'adolescenza, ha fondato Sewa nel 1972 come branca del Tla (il sindacato dei tessili). Ma la sua forza, la sua visione, andavano oltre la complementarità femminile. Membro del parlamento federale, autrice della prima grande inchiesta sociale sulle donne dell'India indipendente, Ela fonda nel 1974 la prima banca di microcredito del mondo.
Nel 1981 Sewa rompe gli argini stretti del Tla. Come Draupadi, l'eroina del Mahabharata, si affida alla protezione di Krishna per sottrarsi al crudele cugino che l'ha vinta al gioco, così - ricorda Ela – lei, offesa, interrotta, fischiata al congresso del sindacato, si avvolge nella protezione delle sue donne per iniziare con loro la strada dell'autonomia.
Lavoratrici autonome
Lavoratrici in nero, marginali, informali, non organizzate, atipiche? Possono definirsi così le donne che rappresentano la grande maggioranza dei lavoratori non protetti: ossia del 93% della forza lavoro indiana, che copre il 63% del prodotto interno lordo, il 50% dei risparmi e il 40% delle esportazioni?
A giudizio di Sewa assolutamente no. Lo dice il nome stesso del sindacato: Self Employed Women's Association, associazione delle lavoratrici autonome. Stampatrici di tessuti, ricamatrici, materassaie e riutilizzatrici di stoffe vecchie per coperte e tappeti, operaie edili, arrotolatrici di stoppini, produttrici di incensi, venditrici di frutta, verdura, tessuti e pentole, lavandaie, cuoche e cameriere di famiglie, scuole e ospedali. L'elenco è puntiglioso, ma lontano dall'essere esauriente: i mestieri umili delle donne indiane sono infiniti.
Per Sewa la pedagogia delle dignità è decisiva: io donna, membro di Sewa, non sono una povera cosa, una marginale; sono una donna che lavora e che, per farlo, utilizza dei mezzi di produzione. Stracci, fili, carretti, tabacco, stoffe, sementi vanno strappati dalle avide mani dei mediatori, e potenziali strozzini, e offerti alle donne a prezzi equi. E' questa, insieme alla difesa dei salari, la prima missione di Sewa.
Kachchh e donne rurali
Allatta il bambino, va a prendere l'acqua, cucina, pulisce la casa, nutre il bestiame, munge la vacca, cura i vecchi e i malati, lavora nei campi, ripara il tetto e consolida il pavimento di fango, prepara il combustibile dallo sterco di vacca, cuce abiti e coperte patchwork, monda il grano e il riso, immagazzina il foraggio, bada alle coltivazioni, spannocchia il mais, sguscia il cotone d'estate e le bacche d'inverno.
Così Sewa descrive il lavoro senza fine delle donne rurali, il cuore del paese e dell'ispirazione gandhiana del sindacato.
Oggi, la tendenza all'urbanizzazione e la deforestazione di ampie zone sradicano le popolazioni delle campagne. Spesso, tra le caste basse, c'è un peregrinare stagionale: verso gli slum delle città per unirsi al lavoro dell'edilizia, verso i cantieri di stato al minimo salariale per le opere pubbliche.
Sewa prova a remare controcorrente, a curare le comunità, a dar valore a squisite sapienze artigianali. Anche nel remoto desertico Kachchh, dove conta più di 20.000 iscritte. Anche fra le adivasi (tribali) rabari, celebri per l'orgoglio, lo splendore dei ricami dei loro corpetti e la flessuosa bellezza.
Levatrici
Sguardi che pungono il presente da un tempo lontano, reticoli di segni sui visi antichi, orecchini tribali che deformano i lobi. Sono le dai, le levatrici dei villaggi.
Donne di bassissima casta, bisognose a loro volta di dignità e di apprendimento, sono depositarie del patrimonio di una saggezza antica. Spesso rappresentano l'unico sostegno, nella gravidanza e nel parto, per le contadine dei villaggi. Il 60% dei bambini nel distretto di Ahmedabad nasce ancora in casa. Eppure l'India “moderna” e la medicina ufficiale le disprezzano.
Da dieci anni il governo nazionale non finanzia più i corsi per le dai con la motivazione del tutto astratta che è più sicuro ricoverare le partorienti in ospedale. Ospedali difficilmente raggiungibili dai villaggi remoti.
Sewa ha scelto una strada diversa. Formare le dai e farle diventare autentiche operatrici sanitarie di base, esperte di contraccezione, di prevenzione dell'Aids e di alimentazione. A Khavda, un villaggio del deserto vicino al confine pakistano, quattro dai hanno persino messo in piedi una piccola clinica sperimentale, aperta 24 ore su 24, e diretta completamente da loro.
Edili
Le belle mani istoriate dall'henné e i polsi ornati di bangles multicolori si misurano con il filo a piombo, la calce e la cazzuola. E' un'opportunità nuova. Le donne imparano a diventare muratrici, operaie rifinite, a dispetto delle tradizioni del passato.
Il loro ruolo consolidato è quello di manovali. Anime alla fatica, trasportano a forza di braccia, e soprattutto sulla testa, mattoni e calcinacci, malta e materiale da riporto. Dalle strade e dalla base dei cantieri si arrampicano anche fino al decimo piano delle impalcature, dove i muratori maschi le aspettano. Per non avere impacci rinunciano alla dignità del sari e ai suoi colori, e lavorano in sottogonna di cotone.
L'Ahmedabad dei trionfi populisti e di grandezza del governatore Narendra Modi brulica di cantieri. Tra l'una e l'altra riva del Sabarmati una vecchia strada, ora diventata di grande transito, si allarga e si rinnova e, nel suo farsi e disfarsi, mostra gli occhi strappati, le orbite vuote dei vecchi appartamenti pezzati di diversi colori, come nei quadri sulle demolizioni di Mario Mafai.
Paper picker
Apparentemente lo smaltimento dei rifiuti sembra fluido. In un paese povero non ci sono grandi pacchi, confezioni e imballaggi; le mucche, che ovviamente vagano in libertà per le strade, mangiano gli avanzi umidi se non vengono ritirati. Carretti di riciclatori passano di casa in casa alla ricerca di carta, vetro e plastica.
Ma i fetidi intestini del mondo, le discariche, esistono e sono popolose come piccole città di ombre e di fetore. Suez Farm, la più grande discarica di Ahmedabad, si stende a perdita d'occhio a pochi chilometri dal centro. Nella sola città, i paper picker, riciclatori di rifiuti, sono 45-50.000, di cui 20.000 donne iscritte a Sewa. Raccolgono carta, ma anche stracci, plastica, metallo, pneumatici, capelli. Per un chilo di plastica guadagnano 12 rupie (20 centesimi di euro), per un chilo di capelli 500 (poco più di 8 euro). Vivono nei pressi della discarica, alcuni si nutrono del cibo trovato nei rifiuti.
Le ombre brune si alternano di giorno e di notte fra camion e bulldozer, un sacco di plastica (thela) sulla spalla sinistra e un bastone che termina in un gancio di ferro nella mano destra.
Nemmeno i cacciatori del cielo resistono a lungo quanto gli umani in quell'ignobile puzza. Corvi, gabbiani e falchi di palude si affollano come incursori intorno ai bulldozer quando arrivano, ma poi scappano verso l'orizzonte sinistro della piana. Lì i campi coltivati miracolosamente prosperano verdi, mossi dal vento, le zolle morbide di monsone.
Musulmane
Come in una danza lieve, elastica e velocissima, le ragazze dello slum musulmano dei tintori arrotolano le dupatta (lunghe sciarpe) perché si increspino di mille piccole pieghe, dopo che i loro uomini le hanno immerse in enormi pentoloni colorati lungo i vicoli del quartiere.
Non si distinguono in nulla dalle loro coetanee hindu: né veli, né particolare disciplina segregativa. La tradizione migliore del paese le voleva così, figlie anche loro della madre India e delle sue promesse.
Oggi domina la paura. Non una moschea nell'area, non una preghiera del muezzin. Solo gli zucchetti ricamati di bianco dei ragazzi ci ricordano dove siamo.
Dal 28 febbraio 2002 questa per i musulmani è una terra di sangue. Con la copertura e la complicità del governatore Narendra Modi, del partito integralista hindu (BJP), e della polizia, interi quartieri sono stati dati alle fiamme, 2.000 musulmani sono stati trucidati e 150.000 hanno perso casa e radici. Contro le donne è avvenuta quella particolare guerriglia, ad alta o bassa intensità a seconda delle fasi, che gli uomini praticano ormai in tutte le lotte etniche: lo stupro brutale e sistematico.
Malgrado lo sdegno di scrittori, intellettuali, giudici federali e organismi internazionali, Narendra Modi è ancora al potere. E ha grandi ambizioni.
Le nuove leader, Namrata e Mirai
La costruzione della leadership femminile colora tutti i valori di Sewa. Per capirne il senso bisogna spogliarsi di ogni verticismo. Leader è una figura che equivale a ciò che nella più nobile tradizione sindacale italiana sono (o erano?) i quadri. Persone preparate, competenti della strategia del sindacato, capaci di cogliere i fenomeni sociali, autorevoli, coraggiose, umanamente calde e solidali.
L'80% dei quadri sono di classe lavoratrice e di casta bassa, ma le donne colte e cosmopolite, che gandhianamente scelgono di vivere al servizio della comunità (swadeshi), hanno ancora oggi una vocazione scintillante.
Namrata Bali, direttrice dell'Academy, laureata in tecniche tessili a Baroda e specializzata in Israele, inizia a Sewa come stagista. “Le donne dei villaggi facevano resistenza alla mia giovinezza”- ricorda. Per qualche anno torna all'università e ai “buoni lavori” dell'industria. Ma nel 1984 Sewa diventa una scelta di vita.
Anche Mirai Chatterjee, direttrice dei programmi sanitari, arriva nel 1984. Genitori liberal ammiratori di Nehru, una madre forte laureata in economia, condivide a Mumbai il liceo delle stelle del cinema e si laurea negli USA, alla Johns Hopkins University. La sua coscienza politica nasce lì, nella lotta contro le discriminazioni razziali. Al ritorno in India entrare in Sewa le appare come un esito naturale.
Alfabetizzazione
Ancora oggi le donne più povere imparano, solo dopo i corsi di Sewa, ad avere un nome e usarlo (e a non dire di sé solo “sono la madre di Sanjay” o “la moglie di Arun”), oppure a salire su un autobus sapendo leggere i numeri delle linee.
In India le donne analfabete sono quasi il 50%. Per anni Sewa aveva tentato di alfabetizzare le sue iscritte, ma senza successo. Alla fine degli anni ottanta, alla vigilia delle liberalizzazioni, con la crescita economica, il clima cambia. La voglia di sapere comincia a farsi sentire. Nel 1990 nasce l'Academy, l'istituto di formazione diretto da Namrata Bali, che macina una grande attività. Dai corsi di alfabetizzazione a quelli di formazione politica, all'educazione alla salute negli slum, al recupero scolastico delle ragazzine costrette a badare ai fratelli più piccoli, alla formazione informatica per le più giovani, a quella economica per le attiviste che si occupano della banca e delle assicurazioni. In più cresce una vera passione per i nuovi media e per l'uso dei video nelle inchieste sociali. Come è nello stile dell'associazione, anche in questo campo si formano alla leadership i quadri di base: una carpentiera diventa apprezzata film producer.
Sanità
Il 43% dei bambini indiani non riceve le vaccinazioni previste dall'Organizzazione mondiale della sanità. La costellazione delle patologie è molto diversa da quella delle nostre latitudini: la tubercolosi è il primo killer, seguita dalla malaria e dall'Aids. Anche in questo la differenza di genere si fa sentire: la mortalità delle ragazze sotto i vent'anni è quasi il doppio di quella maschile, mentre la tubercolosi colpisce le donne per il 60% e gli uomini per il 40%.
In un paese dove non esiste il diritto alla salute per tutti, Sewa, come molte altre associazioni non governative, svolge una funzione di stimolo e di supplenza. Nel 1984 lancia, nella sede di Chanda Nivas, i suoi programmi sanitari, sotto la direzione di Mirai Chatterjee: centri, dispensari, campagne sostenute dal governo o dall'Oms, medicine a prezzi calmierati.
Forte della sua filosofia olistica, che connette ogni aspetto della vita delle donne, Sewa ha colto, dallo studio delle mancate restituzioni dei prestiti alla banca, i crinali della fragilità: la malattia di un familiare, ma anche il parto e la vedovanza. Su 500 donne correntiste, ogni anno ne muoiono 20, di cui 15 di parto.
Questa ecatombe di giovani creature è il tormento di Ela Bhatt. Nel 1981, durante una rivolta di baroni e bramini contro le quote per gli “intoccabili” alla Facoltà di Medicina, griderà con quanto fiato ha in gola: “Mentre voi litigate per i posti e il potere, io nei villaggi vedo le partorienti morire perché si taglia ancora il cordone ombelicale con il coltello sporco e arrugginito”.
La banca di Sewa
Per le iscritte la banca è “la casa della madre” o “il pozzo del villaggio”. Un luogo sicuro, che ristora, ma un luogo di donne. Per le dirigenti è soprattutto una palestra di dignità: riscatto dagli usurai, dal giogo dei maschi di famiglia, dalle tradizioni della dote e della festa di nozze.
La banca nasce nel 1974, con un capitale raccolto in sei mesi fra 6.287 membri, che contribuiscono anche con sole dieci rupie (16 centesimi di euro) ciascuno. Oggi detiene circa 300.000 depositi, in ciascuno dei quali affluisce mediamente un risparmio di 10.000 rupie (circa 165 euro) l'anno, una cifra enorme per una donna povera indiana. Il prestito può essere tre o quattro volte il risparmio. L'essenziale – e su questo l'indagine di Sewa è scrupolosa – è che sia chiesto per scopi produttivi, che consentano alla lavoratrice di assaggiare la libertà da padroni e mediatori.
Il 19 marzo 1974, con una provocazione tipicamente gandhiana, Ela Bhatt raccoglie nella sua casa quattordici donne analfabete e insegna loro per tutta la notte a scrivere la loro firma. Saranno le fondatrici di una banca speciale, le cui attiviste (sathi) non si limitano a recuperare il credito e a incoraggiare il risparmio, ma sono antenne sociali negli slum e nei villaggi. E’ nata un’idea che farà discutere il mondo: quella del microcredito. Nel 1975 farà scalpore alla conferenza mondiale delle donne di Città del Messico, più tardi prenderà le ali attraverso la straordinaria ispirazione di Muhammad Yunus. Da allora il dibattito sulla cooperazione allo sviluppo, nel bene e nel male, non ne potrà prescindere.
Donna India e i suoi mille occhi
di Diego Mormorio
Da sempre, l’India, con la sua vastità e varietà di forme e colori, richiama lo sguardo dei fotografi come pochi altri luoghi. Autori professionisti e occasionali si cimentano ogni giorno con la spettacolarità, la profondità e il dramma di questo continente considerato “quasi infinito”. In India, infatti, oggi forse più che mai, c’è tutto quello che è possibile trovare sulla Terra e questo tutto vive in “un ordinato caos” in cui risulta impossibile separare nettamente una cosa dall’altra. Dove la finitezza più drammatica si fonde col senso dell’infinito e con la spiritualità più profonda; e dove la grandezza e le sottigliezze di Nagarjuna – uno dei più straordinari pensatori di tutti i tempi – nonché dei filosofi che, a partire dal secondo secolo, lo hanno seguito il suo insegnamento sembra naufragata in certi film di Bollywood. Assurde e quasi indescrivibili banalità che certamente avrebbero molto incuriosito il grandissimo indianista Giuseppe Tucci, tanto profondamente conoscitore dell’India da entrare vestito da indiano in un sogno in cui lo psicanalista Ernst Bernhard si vede affamato in una caverna, soccorso da un italiano vestito da indiano. Un sogno che inizialmente Bernhard e il suo maestro Jung non riuscirono a interpretare e che Bernhard riuscì a capire solo nel 1940, quando, trovandosi come ebreo internato in un campo della Calabria, riuscì a tornare nella sua casa romana grazie all’interessamento di Giuseppe Tucci, che teneva la cattedra di Religioni e Filosofia dell’India e dell’Estremo Oriente a Roma.
In realtà, le contraddizioni dell’India sono agli occhi degli indiani una cosa del tutto naturale – per dirla con una loro tipica espressione, “un’articolazione karmica”, in cui un ricco di oggi è probabile sia stato in passato un fuori casta, così come un fuori casta di oggi è possibile sia stato un maharaja. Secondo la logica materialista, questa visione delle cose sarebbe l’oppio del popolo indiano, ma – senza entrare nella valutazione di questo giudizio – possiamo aggiungere che essa ha fatto degli indiani un popolo che per naturale inclinazione coltiva la pace seminando piccole cose che talvolta diventano grandi, come la Self Employed Women’s Association, l’unico sindacato di donne nel mondo che conta un milione di iscritte, e che è all’origine delle immagini che la fotografa Laura Salvinelli espone a Palazzo Incontro di Roma (via dei Prefetti 22 – tel. 0667662250), dal 19 dicembre al 18 gennaio. Immagini esteticamente belle, coinvolgenti e narrativamente utili, che trovano il loro fondamento in due elementi che le rendono assai diverse dalla stragrande maggioranza delle fotografie che ci giungono dall’India: il bianco e nero e la specificità del ritratto. Nel contesto di queste immagini – di cui una parte è stata compresa nel volume Indiana della giornalista e studiosa del movimento delle donne Mariella Gramaglia (Donzelli), che a lungo si è occupata del Self Employed Women’s Association – la scelta congiunta di questi due elementi facilita infatti l’attenzione sul soggetto considerato nella sua prossimità umana e come invito alla riflessione. Per dirla con un’espressione di Giovanni Verga, Salvinelli guarda i suoi soggetti – che si trovano consapevolmente di fronte all’obiettivo – nel “bianco degli occhi”, e ce li fa riconoscere come una parte di noi stessi. In tal modo, queste immagini realizzate nella lentezza sfuggono alle insidie del cromatismo e al tempo stesso a quelle della spettacolarità: ai due elementi che, accompagnati dall’idea della fotografia come atto predatorio, dominano oggi la produzione di immagini fotografiche, nella quale ci è dato trovare scarsissima considerazione per lo sforzo riflessivo e, soprattutto, scarsissimo rispetto per la gente più umile. Da sempre, come la morte e la catastrofe, i poveri sono fotogenici e si lasciano facilmente fagocitare dall’obiettivo fotografico. Non oppongono resistenza e si consegnano allo specchio della fotografia quasi come corpo morto, così come li vuole chi li sta fotografando, il quale, lontano dal pensiero di avere di fronte una dignità da rispettare, vede chi gli sta di fronte soltanto come un oggetto intorno al quale compiere un atto creativo. In questo modo i fotografati cessano di essere i protagonisti dell’immagine e diventano la palestra di un esercizio narcisistico e sopraffattorio. La gran parte delle fotografie che compaiono sui giornali appartengono a questo tipo di immagini, e i fotografi che le hanno realizzate costituiscono un vero e proprio esercito di vampiri visivi. Per fortuna c’è, però, in numero assai limitato, un diverso genere di autori, al quale appartiene Laura Salvinelli, per il quale le persone fotografate rappresentano la prossimità che giustifica l’atto del fotografare. Nel loro lavoro, il soggetto è tout-court l’oggetto, la presenza che origina la forma, la quale, come in tutte le arti, non è mai separata dallo scopo dell’arte. Avviene così che nelle fotografie di Laura Salvinelli l’inquadratura e la qualità della luce diventino tutt’uno con le persone fotografate, proprio perché sono il mezzo attraverso il quale queste si presentano a noi. Questo genere di fotografie ci mettono di fronte non soggetti vampirizzati, ma persone interamente vive, che nel loro essere tali ci parlano del loro dramma, così come delle loro speranze. Drammi e speranze che nelle immagini di questa mostra romana sono quelle delle donne che appartengono alla Self Employed Women’s Association. Associazione che restava a molti di noi sconosciuta e che ora il lavoro di scrittura di Mariella Gramaglia e le fotografie di Salvinelli non ci permettono più di dire: noi non sappiamo chi siete. Ora loro hanno bussato alla nostra porta.
Le voci e gli sguardi che ci giungono dalle immagini di Laura Salvinelli appartengono a un’umanità cui ella si è da tempo avvicinata e dalla quale si sente, non sembri un’esagerazione, amorevolmente attratta. Ritrattista sin dal 1981 nel campo dello spettacolo, ella ha applicato questa sua specificità a quello che normalmente viene chiamato reportage, ragione per cui, con un gioco di parole che unisce il francese e l’inglese, la fotografa definisce questa sua seconda attività reportraits (reportage di ritratti, portraits). Un modo di procedere che ha portato Salvinelli a realizzare già, prima di questa, altre tre belle mostre: nel 2004 “La cura” nel 2004 (sulla ricostruzione dell’Afghanistan), “Sulla prima nobile verità” nel 2005 (sulla guerra e l’esilio nel continente asiatico) e “Congo Reportraits” nel 2007.
Nelle sue immagini la volontà di documentare e di rendersi prossima a ciò che a qualcuno appare lontano è tutt’uno col piacere della fotografia, e ciò, anche stavolta, di fronte alle trentanove fotografie esposte a Palazzo Incontro – egregiamente stampate da Luciano Corvaglia – risulterà al visitatore del tutto evidente.
Liberal 20 dicembre 2008