DONNE IN MARE
Reportage a bordo della Life Support di EMERGENCY
foto e testo di Laura Salvinelli
“Fino a non molti anni fa, c’era la convinzione che le donne a bordo fossero portatrici di sventure. Sia il mondo marittimo che quello del soccorso sono tradizionalmente maschilisti, gerarchici, autocratici. Per una donna entrare e affermarsi in questi ambienti era una vera lotta. Io sono stata a lungo l’unica o una delle due soccorritrici della Spagna del Nord. Ma se dovessi rinascere, lo rifarei. Le cose stanno cambiando, però devono ancora migliorare”. Siamo a bordo della nave Sar (search and rescue: ricerca e salvataggio) di EMERGENCY, la Life Support, e sta parlando la capomissione Anabel Montes Mier. Nata nelle Asturie 37 anni fa, in una piccola città di montagna a poca distanza dall’oceano, “un posto veramente selvaggio”, è stata nuotatrice agonista, aereo-soccorritrice in mare, laghi e fiumi, e bagnina per 12 anni. Dal 2015 ha deciso di adattare la sua professione ai bisogni umanitari. “Aiutavo persone in pericolo per incidenti in scenari divertenti o felici. Nessuno merita di essere lasciato indietro e di morire in mare, soccorrere chi è costretto al rischio nell’assoluta indifferenza di metà del mondo dà ancora più significato al mio lavoro” dice. Laura Pinasco, 47 anni, di Lavagna, a 30 anni una delle poche comandanti della Marina mercantile, conferma l’estrema disparità di genere: “Non vengo da una famiglia marinara, dico sempre che sono la prima e l’ultima. Non credo che ci siano stati grandi miglioramenti, però ci sono molte più donne adesso di quando ho iniziato 27 anni fa”. Qui sulla Life Support, oltre alla comandante e alla capomissione, la responsabile del ponte, tre membri su quattro del team sanitario, la mediatrice culturale a bordo dei rhib, i gommoni con cui si effettuano i soccorsi, la logista e una soccorritrice sono donne. Il valore aggiunto del lavoro delle Ong in mare è anche l’inclusione e il riconoscimento delle donne in mondi che le escludevano.
La nave rossa di EMERGENCY è salpata dal porto di Siracusa per la sua 23° missione a inizio dello scorso agosto. A bordo si indossa tutti lo stesso abbigliamento (che cambia a seconda delle zone), si partecipa tutti – anche la stampa - a caricare i viveri, a pulire gli spazi comuni, agli addestramenti, alle esercitazioni, ai training, ai salvataggi. Si diventa un unico team con una motivazione e un entusiasmo così forti da produrre l’adrenalina necessaria per superare lo stress fisico e mentale, il caldo torrido, la mancanza di sonno. Abbiamo soccorso in acque internazionali della zona Sar maltese 65 naufraghi partiti dalla costa libica provenienti da Siria, Bangladesh, Egitto e Eritrea, fra cui una donna siriana con un figlio di tre anni e due adolescenti, e sette minori non accompagnati. E M., siriano, 21 anni, che provava la traversata per la nona volta - le altre otto era stato riportato indietro dalla cosiddetta Guardia costiera libica. È sopravvissuto a sparatorie, a giorni in acqua, a un anno e mezzo di prigione in Libia, ha subito e visto torture inenarrabili e l’uccisione di almeno 30 persone. Il suo viaggio gli è costato 20.000 dollari, (la sua famiglia ha dovuto vendere la casa), tre anni di vita all’inferno e un trauma che gli rimarrà dentro. Essere parte attiva di un salvataggio, tendere la mano su quel confine in cui si incontrano il terrore e la fiducia, provoca un’emozione così potente che l’unico modo per non venirne sopraffatti è svolgere con la massima cura il proprio lavoro. È una situazione in cui bisogna essere concentratissimi perché può succedere di tutto, dall’intervento armato delle milizie libiche a reazioni di panico da parte di persone traumatizzate. Dopo quattro giorni di navigazione abbiamo sbarcato i naufraghi al porto assegnato di Ortona dove sono stati presi in carico da un dispiegamento di forze difficilmente visto nelle retate di terroristi, mafiosi o criminali. Lì è iniziata la loro nuova odissea. Un’odissea di attese infinite, che ben conosce la logista Paula Virallonga, di Barcellona, 33 anni, che per 15 anni ha viaggiato, studiato e lavorato con persone in movimento in Africa, Europa, Asia e Centro America, e che sa come “le attese possono far morire dentro”.
Fra i superstiti ci sono solo due donne, madre e figlia, una percentuale insolitamente bassa. “Quando abbiamo raggiunto un gommone che era in mare da tre giorni, alla deriva da uno e mezzo, c’era un uomo che brandiva un bimbo sopra di lui a mo’ di Re Leone come a mostrare un’urgenza, e in quel momento mi si è gelato il sangue perché non si capiva se il piccolo, coperto da un salvagente, fosse cosciente o no. Erano tutti terrorizzati, ci guardavano come se fossimo sbucati da chissà dove per salvarli, degli alieni bardati con caschi e equipaggiamento che urlavano ordini incomprensibili per manovrare bene l’operazione. C’erano solo due donne a bordo ed erano le uniche che non riuscivano a trattenere dei gran sorrisi, molto intensi. Non erano ancora state salvate, però avevano capito che stava per succedere qualcosa di bellissimo” racconta a caldo il navigatore oceanico Ambrogio Beccaria, 32 anni, che sostiene EMERGENCY partecipando a questa missione come soccorritore. Beccaria, il primo italiano a vincere nel 2019 la Mini-Transat, la storica transatlantica in solitario, è il navigatore oceanico italiano più forte della sua generazione e uno dei migliori a livello internazionale. “Lo scorso anno mi ha colpito una donna siriana di 78 anni in mare con figli e nipoti” testimonia l’infermiere Sauro Forni. “Quando avevamo lavorato ad Amatrice, avevo visto terremotati che non si staccavano da luoghi in cui tutto era distrutto, perché non è facile, specialmente per gli anziani. Quella donna che aveva accettato di intraprendere un viaggio così pericoloso mi ha fatto capire che la disperazione non ha età” aggiunge. Mariam Bouteraa, mediatrice culturale, nata a Mazzara del Vallo da genitori tunisini 30 anni fa, da bambina si sentiva “sbagliata” sia in Italia che in Tunisia, ma crescendo ha capito che possedere due culture è il suo più grande patrimonio. “Ho letto Donne che corrono con i lupi, che parla di una forza interiore comune a tutte le donne, che porta avanti la vita, il senso di giustizia e bellezza che c’è nel mondo. La storia della madre siriana che è partita con i sui tre figli, come quelle di tante altre che ho incontrato a bordo e a terra, credo dimostrino una gran volontà di lottare per affermare il valore della vita propria e soprattutto dei propri cari. Il valore della vita anche quando si sono esaurite le risorse. È questa l’energia di cui ha scritto Clarissa Pinkola Estés, ed è presente in particolare nelle migranti” dice. Penso che sia la stessa a cui si riferisce Marilena Silvetti, 27 anni, infermiera appassionata di antropologia medica, che descrive cosi: “Sicuramente la maggior parte delle migranti è ancora più o meno oscurata dalla figura maschile e a volte ha meno strumenti, ma anche quelle più velate, più sommesse, hanno qualcosa negli occhi che sa di rivoluzione”.
Il tema dei migranti, sicuramente complesso, è divisivo anche perché molto strumentalizzato. È stata Hannah Arendt, la più significativa filosofa dello scorso secolo, a scrivere per prima, nel 1943, il manifesto Noi rifugiati, e la Storia ha avvalorato la sua profezia: le migrazioni non sono un’emergenza ma un fenomeno strutturale che diventerà sempre maggiore e nessuno potrà fermare. L’emergenza è la totale negazione dei diritti delle persone in movimento che vengono depredate da banditi, trafficanti, mafiosi e milizie di Paesi corrotti che l’Italia – qualunque sia il governo - e l’Europa continuano a finanziare. Paola Tagliabue, 53 anni, medico anestesista e rianimatore del Policlinico di Milano e collaboratrice di EMERGENCY, testimonia che il 30-40% dei naufraghi visitati ha addosso segni di tortura. Le Ong non costituiscono un fattore di attrazione per le partenze e tantomeno hanno mai avuto rapporti con i trafficanti, che invece prosperano e si moltiplicano nei Paesi non democratici in cui l’Europa esternalizza le frontiere. La comandante Pinasco afferma che le comunicazioni fra i vari canali che segnalano le richieste d’aiuto dei barchini in pericolo, il Centro di Coordinamento del Soccorso Marino e le Ong avvengono in totale trasparenza mettendo in copia le autorità competenti di Italia, Malta e Libia. Lo scorso anno, l’Italia ha approvato la legge Piantedosi (la legge n. 15/2023) che obbliga le Ong a raggiungere senza ritardo il porto assegnato, impedendo o limitando al massimo i soccorsi multipli. Insieme alla prassi di assegnazione di porti lontani – solo alle Ong, che trasportavano fino allo scorso anno il 10%, quest’anno il 21% dei migranti - allontana le navi delle Ong dalle acque di soccorso, causando più vittime e spreco di risorse e denaro. Questa legge viola una serie di norme europee e internazionali, oltre al Codice della navigazione e alla Costituzione. Secondo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni dal 2014 a oggi più di 30.000 persone sono morte o scomparse nel Mediterraneo, cifra sicuramente molto più bassa di quella reale. Non sarebbe più giusto legalmente e moralmente, e più intelligente, smettere di buttare miliardi per difendere la fortezza Europa e considerare i migranti una risorsa, investendo sull’accoglienza e l’inclusione delle persone che comunque faranno parte del nostro futuro?
La Life Support dalla sua prima missione nel dicembre del 2022 a oggi ha salvato 2.222 vite nel Mediterraneo Centrale, la rotta più letale del mondo. Sul fianco sinistro, una frase di Gino Strada: “I diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli privilegi”.