The Lost Generation - Cinema and Care

 

LA GENERAZIONE PERDUTA

Incontro con il regista Marco Turco

foto e testo di Laura Salvinelli

 

   “Una gita a Fasano, così come me l’ha raccontata un ragazzo romano in villeggiatura nel sud. “Eravamo in due, io e la mia ragazza. In quel fottuto paese calabrese non riuscivamo a venire a capo della situazione. La roba in un paesino piccolo che vive di birra e gazzosa non sanno manco cos’è. Era il secondo giorno di rota, e mentre la ragazza che era con me reggeva stringendo i denti e spingendosi sempre più vicino al camino nella speranza di sconfiggere i brividi, io ero arrivato proprio allo stremo. Mi sono ricordato di aver letto su un giornale che nelle Puglie c’era un paesino, Fasano, appunto, che era una sorta di Bengodi per chi si fa”. La voce di Claudio Santamaria legge un articolo di Carlo Rivolta pubblicato su Lotta Continua. “Carlo ci teneva moltissimo a lavorare, che la sua esperienza di dolore, la sua conoscenza di quel mondo lì si tramutasse in lavoro di giornalismo” racconta Enrico Deaglio, allora direttore del quotidiano. “Non è che l’idea che lui si facesse un buco fosse una cosa tanto terribile: tanti si bucavano nel bagno in fondo al corridoio di Lotta Continua. Era un vivere con l’eroina”. Uno sterminato materiale di repertorio sull’arrivo dell’eroina in Italia negli anni ’70 e sulla devastazione di una generazione - con i documentari di Alberto Grifi sul grande raduno a Parco Lambro e Storia di Filomena e Antonio di Antonello Branca, le trasmissioni televisive di Sergio Zavoli e le inchieste di Joe Marrazzo, i telegiornali e le radio che riportano morti e arresti come in una guerra, gli articoli, i diari, le foto e i filmini in Super 8 di Rivolta – e molte interviste a tossicodipendenti e alle persone più vicine al giornalista, la compagna storica Emanuela Forti e  suo figlio Andrea Lapponi, lo zio Rinaldo Chidichimo, l’amico del cuore Luca Del Re, il collega Claudio Gerino e, appunto, Enrico Deaglio: di tutto questo è fatto La generazione perduta di Marco Turco, Nastro d’Argento 2023 per la sezione “Cinema del reale”. Il documentario, scritto dal regista con Vania Del Borgo (il soggetto) e con Wu Ming 2 (la sceneggiatura), è una sinfonia corale accompagnata dalla voce di un solista, quella di Carlo Rivolta, talentuoso cronista e giornalista d’inchiesta per Paese Sera, soprattutto la Repubblica, dal primo numero, e Lotta Continua, “sempre tenendo il culo in strada, per quasi dieci anni vissuti pericolosamente”, “ghermito dal drago dell’eroina”, nelle parole di Wu Ming 1, morto suicida a 32 anni. Ne parlo con Marco Turco, di passaggio a Roma fra una presentazione e l’altra in giro per l’Italia.

Secondo gli autori de L’aspra stagione, Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale, l’uscita dagli anni ’70 è costata la vita oppure l’anima di tanti: “In troppi hanno perso la prima. Molti si sono venduti la seconda”. Ma c’è anche chi come te non ha perso né l’una né l’altra. Chi eri in quegli anni?

Io sono del 1960 e vengo da una famiglia comunista: mio nonno era comunista e mio padre un attivista del Pci. Ho cominciato a fare politica a 14 anni, ero uno di quelli che chiamavano figicciotti. A quei tempi si viveva di pane e politica. Nella nostra sezione, quella di Ponte Milvio, dove era iscritto anche Enrico Berlinguer, univamo l’ideale di cambiare il mondo al gioco, vivevamo tutti insieme e ci confrontavamo con tutte le età. Assistetti all’avanzata straordinaria del partito convinto che stavamo facendo la rivoluzione e che avremmo vinto. Ma la situazione si complicò per il tentativo di realizzare il compromesso storico, visto come il fumo negli occhi a sinistra del Pci e anche da molti militanti del partito. Al comizio di Lama all’università, riconosciuto poi come un grande errore da molti di noi, scoppiò la guerra di autonomia operaia e del movimento studentesco contro noi e il sindacato. Io ero nel servizio d’ordine, non eravamo preparati e ci prendemmo un sacco di botte. Da quel momento la sinistra non era più unita sullo stesso fronte contro i fascisti. Quando ci fu quello che fu definito il riflusso ho smesso di fare politica non perché non me ne fregasse più niente ma perché ho riversato la mia carica da attivista nello studio, mosso dal bisogno di capire meglio quello che andavo dicendo da anni, e mi sono iscritto alla facoltà di Storia e Filosofia. 

E continui a elaborare quegli anni nei tuoi film. Come sei arrivato al cinema?

Anche il cinema è tradizione di famiglia. Mio nonno faceva il falegname a Cinecittà fin dai tempi del cinema muto, mio padre iniziò come falegname e diventò scenografo, uno zio faceva il pittore decoratore: la nostra era una famiglia che oltre che di politica viveva di cinema. Io all’inizio pensavo che avrei fatto il professore, perché era il periodo della prima crisi dovuta dall’arrivo delle tv commerciali che passavano molti film, e vedendo mio padre disperato quando non lavorava, pensavo che non avrei voluto fare quella vita. Ma un’estate mi feci portare su un set come aiuto attrezzista e fui “tarantolato”, mi sentii magicamente “a casa”. Ho fatto l’assistente e l’aiuto regista, e studiato in scuole di sceneggiatura con l’obiettivo di diventare regista. Gli anni ’70 sono tornati nei miei film perché sono stati gli anni che mi hanno formato, con tutti i pro e i contro. Il mio primo lavoro è stato un documentario sui rifugiati politici italiani in Francia, la generazione perduta nella lotta armata, Vite sospese, che poi divenne l’argomento del mio primo film Vite in sospeso. Con la miniserie tv Rino Gaetano – Ma il cielo è sempre più blu ho raccontato uno degli aspetti positivi, quello della musica come strumento di emancipazione e lotta. All’epoca i protagonisti delle fiction di Rai 1 erano medici, santi e commissari, mentre il mio era un giovane cantautore anche lui perso, finito male, che come Carlo Rivolta incarnava a pieno quella generazione, estremamente libero e controcorrente, non allineato a nessuno. Con la miniserie su Franco Basaglia, C’era una volta la città dei matti ho affrontato il tema dell’istituzione negata, e le istituzioni reazionarie non erano solo i manicomi, ma anche le scuole, altrimenti la ribellione non sarebbe partita da lì. Il racconto dell’eroina è un altro capitolo della stessa elaborazione, il più doloroso, anche perché era una trappola maledetta di cui i ragazzi non sapevano niente.

Che rapporto avevi con l’eroina e i tossicodipendenti?

Per anni ho rifiutato e tentato di tenere lontano da me sia i tossici che gli alcolizzati. Non accettavo l’idea che si possa dipendere da qualcosa che decide per te. Questo film mi ha permesso di avvicinarmi a loro e ho capito cose che avevo rifiutato in modo ideologico. 

Dall’idea iniziale di un documentario d’inchiesta sull’operazione “Blue Moon” che poi si è rivelata senza fondamento, come siete arrivati a un lavoro sulla narrazione dal punto di vista degli eroinomani?

Nonostante tante ricerche, siamo riusciti a trovare un solo rapporto dei Ros sulla diffusione dell’Lsd organizzata dalla Cia per reprimere la rivolta del movimento, che non è sufficiente per stabilire che quell’operazione sia stata fatta. In ogni caso in Italia il problema è stato quello dell’eroina, non dell’Lsd. Di inchieste e film sulla mafia che ha gestito il traffico della droga ne sono fatti tanti, ma nel cinema, a parte Amore tossico di Claudio Caligari, del 1983, c’è stata una grande rimozione su quella generazione perduta. Per questo abbiamo deciso di raccontare la storia dal loro punto di vista.

Le storie dei tossici sono toccanti perché come dice Filomena nel documentario di Antonello Branca da cui hai preso molto materiale, “ho iniziato a frequentare questa gente che si bucava perché la sento più vera”. A volte erano i più grandi sognatori, quelli che non si tiravano mai indietro, hanno vissuto da reietti perché la guerra contro la droga era (ed è ancora) guerra contro i drogati, e molti hanno pagato con la vita. Per noi che eravamo ragazzi negli anni ’70 questo racconto è molto coinvolgente. Ma che significato ha per le generazioni successive?

A parte che l’eroina non è scomparsa, nell’epoca presente ci sono tantissime dipendenze, e questo documentario racconta come ci si può finire dentro e quanto è difficile se non impossibile uscirne. Può essere un monito per le nuove generazioni, e l’idea è di portarlo nelle scuole e nelle carceri. Alcune carceri l’hanno già chiesto.

   “Milioni di giovani non sanno un cazzo della distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti. Questi giovani, drogati di pregiudizi e di cazzate sulla droga, sono un terreno formidabile di mercato. Con qualche palla si convincono in quattro e quattr’otto a provare la droga, e non serve neanche dirgli cos’è”. Carlo Rivolta

   La generazione perduta, prodotto da MIR Cinematografica e Luce Cinecittà, in collaborazione con Rai Cinema e con Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, è in programmazione ad aprile e maggio nelle principali città italiane con un fitto calendario di proiezioni evento e teniture alla presenza del regista. 

 

 

CINEMA E CURA 

Incontro con la regista Laura Samani

foto e testo di Laura Salvinelli

 

   “Nella classifica del cinema italiano siamo il primo film del 2022 sia per la partecipazione ai Festival (143) che per i premi ricevuti (45), siamo sopra Ennio di Tornatore, per capirci” annuncia appagata la produttrice Nadia Trevisan al Cinemazero di Pordenone. E aggiunge: “Il film è partito da Cannes ed è poi andato dappertutto: in Asia, in America, in tutti i principali Festival europei. Quando chiamavo al telefono Laura, che lo seguiva, mi rispondeva trafelata “Sono all’aeroporto” e io le chiedevo “Ma quale?”” Il film è Piccolo corpo, Laura è Samani, la sua regista, e i premi includono il David di Donatello come Miglior esordio alla regia, il premio come Miglior rivelazione degli European Film Awards, considerati gli Oscar europei del cinema, e quello come Miglior film italiano del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani. Laura Samani, triestina di 33 anni, si è laureata a Pisa in Discipline dello Spettacolo e della Comunicazione e diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia col corto La santa che dorme che ha partecipato al Festival di Cannes 2016, dove ha incontrato Nadia Trevisan che poi avrebbe prodotto Piccolo corpo.

   In un’isoletta del Nordest a inizio del secolo scorso, Agata (l’esordiente Celeste Cescutti) partorisce una bambina morta, la cui anima è condannata al Limbo. La giovane madre si ribella alla legge della religione e del padre a cui la comunità obbedisce. Saputo di un santuario sui monti della Carnia dove i neonati morti vengono risvegliati per un solo respiro, giusto il tempo che basta per battezzarli e salvare la loro anima, si lega la scatola che contiene il piccolo corpo di sua figlia sulle spalle e si mette in viaggio. Lungo la strada incontra Lince (Ondina Quadri), altra creatura ribelle che è uomo e donna e animale, e che si propone di accompagnarla. Questa la trama del film, che racconta il loro viaggio consapevole e inconsapevole, reale e magico, alla ricerca del miracolo. 

Qual è la storia del film, Laura?

Non è che la questione del Limbo mi tenesse sveglia la notte: appena parli di anima si pensa che tu sia credente, ma io non lo sono. Quello che mi interessava molto è il tema del distacco da ciò che si ama. Un rinomato ristoratore del Friuli Venezia Giulia, Aldo Morassutti, scomparso lo scorso anno, dopo aver visto La santa che dorme mi ha parlato di Trava nella (immaginaria) Val Dolais. Ho scoperto l’esistenza dei santuari del respiro o a repit o della piuma – perché si usava una piuma per verificare il respiro – in tutto l’arco alpino, solo in Francia sono più di 200. Se ne hanno testimonianze già dall’anno 1000, ma la piena espansione risale al 1500. Ora hanno perso la funzione originaria perché dal 2007 Ratzinger ha abolito il Limbo. Nei libri dei santuari, antesignani dell’anagrafe, oltre alla registrazione delle anime, dei battesimi, dei matrimoni, dei funerali, c’è anche quella dei miracoli richiesti e ottenuti, che non sempre coincidevano. Questi miracoli sono considerati blasfemi dalla Chiesa cattolica: la resurrezione è il miracolo dei miracoli, l’ultimo compiuto da Gesù. Chiederlo va contro la volontà di Dio e infatti non ci si rivolgeva a lui o ai santi, ma alla Madonna, madre che ha perso il figlio, l’unica che può capire e forse intercedere. Nella scena del santuario non ci sono croci, il rito è guidato da un’eremita donna e non si usano le formule cattoliche, il segno della croce, il rosario, l’acqua e l’olio, bensì la saliva, come faceva Gesù. Ho scritto il soggetto e coinvolto nella sceneggiatura Elisa Dondi e Marco Borromei - che erano al Centro Sperimentale con me e con cui avevamo scritto La santa che dorme. Abbiamo fatto laboratori di sviluppo anche in contesto internazionale: siamo stati selezionati per 2 anni consecutivi al TorinoFilmLab. Abbiamo iniziato a girare nel 2020 e dopo 10 giorni di riprese si è fermato tutto per il primo lockdown. Le 5 settimane di riprese si sono svolte in un anno intero. Una volta finito il film è stato selezionato per Cannes e per gli altri festival e ha avuto tanti riconoscimenti, che prendo come regali e non sto a contare. Mi ha molto commossa il Premio Suso Cecchi D’amico per la Sceneggiatura perché vedo Suso - una delle poche donne in un mondo di uomini che ha scritto alcuni dei film più belli del cinema italiano - come una “nume tutelare” del nostro lavoro. 

In tanti hanno scritto che Piccolo corpo è girato come un documentario ma non lo è. È un film, e l’uso della macchina a mano molto vicina ai personaggi, della luce naturale, della presa diretta, di attori quasi tutti non professionisti che recitano in dialetto, non fa che incarnare la magia di quella che definisci una “favola cruda”. Sei d’accordo?

Sì, non è affatto girato come un documentario ma con architetture molto specifiche, basta pensare alla scena d’apertura che è un unico piano sequenza per niente improvvisato. È una ricostruzione con naturalezza apparente di una finzione. L’equilibrio fra il realismo e la magia si è trovato facendolo, ed è dovuto anche ai limiti dei mezzi a disposizione che in questo caso hanno aiutato. Nel bilanciamento tra reale e magico la mia unica certezza è che non è una storia epica: io non auguro a nessuno di essere come Agata che ha la qualità della caparbietà, ma il difetto di non capire quando lasciar andare. L’eroina non elabora il lutto, sposta sua figlia dalla pancia alle spalle. Appartiene al mito, ha un’intelligenza fortissima ma manca di introspezione psicologica al di là del rifiuto del distacco, è un corpo aggrappato alla scatola che contiene la neonata e non vede nient’altro.

Perché definisci politica la scelta della lingua friulana e dei dialetti?

Abbiamo iniziato il percorso del film con un’idea filologica della lingua dovuta all’ambientazione storica, con la scelta dei tanti dialetti locali e del friulano – che è una lingua perché ha la sua grammatica scritta. Poi nell’arco della ricerca abbiamo lasciato la filologia in virtù di una scelta politica. Durante il fascismo era mandatorio parlare in italiano, soprattutto nelle zone di confine dove la repressione linguistica e identitaria è stata fatta col sangue. In Friuli Venezia Giulia c’era l’influenza del tedesco e dello slavo. La santa che dorme è girato tutto in nediško, il dialetto sloveno delle Valli del Natisone. Quindi, abbiamo deciso di non imporre la lingua e di far parlare a ognuno quella in cui pensa e sogna, a parte Ondina Quadri, cresciuta a Roma, e Celeste Cescutti, cittadina di Udine che non parla friulano. Per altro, da Bologna in giù nessuno nota le differenze. 

Il potere del nome è centrale sia nella religione che nella psicanalisi. La tua “favola cruda” è ambientata in un mondo arcaico in cui solo la religione poteva aiutare a gestire le paure, le ansie e i desideri. Ma sembri molto più interessata alla psicanalisi e allo studio dei miti. È così?

Sì, la psicanalisi mi interessa tantissimo e il film è ambientato nel periodo in cui Freud iniziava a pubblicare il suo lavoro. Mi sono formata con lo studio delle funzioni nelle fiabe russe di Vladimir Propp e dello schema del viaggio dell’Eroe di Cristopher Vogler. Il nostro punto di riferimento per il potere del nome è l’incipit del Vangelo di San Giovanni: “In principio era il Verbo”. È una questione direi ontologica più che cattolica: se non hai un nome non esisti. Altro riferimento è Il libro rosso di Jung. E il mito di Antigone per il tema della giusta sepoltura. Tanto del successo di Piccolo corpo, e non parlo dei premi ma di come arriva alle persone, è dovuto allo sfondamento tra il set e la narrazione cinematografa. Ho chiesto alle protagoniste di scegliere il nome della bambina e non dirlo. Quello di Celeste rimane un suo segreto, quello di Ondina l’abbiamo saputo mentre giravamo la scena, ed è perfetto.

Il tuo film è tutto al femminile ma non parla solo alle donne. Qual è la tua esperienza di regista donna in un cinema che è molto cambiato ma non del tutto da quando era fatto da soli uomini?

L’esperienza dipende molto anche dall’educazione ricevuta. Io e mia sorella minore, grazie ai miei genitori, siamo cresciute senza sentire limiti al nostro desiderio. Mi sono accorta tardi che non sempre è semplice essere donna, che per esempio un atteggiamento assertivo come il mio se viene da un maschio è un leader, se da una femmina è una stronza. A me interessa circondarmi di persone rispettose degli altri, a prescindere dal loro genere. Credo che proviamo le stesse cose, con una sola grossa differenza che sarà centrale nel prossimo film: il desiderio. Desideriamo le stesse cose, ma l’espressione del desiderio è diversa: al maschio si permette con più libertà di tentare di realizzare il suo desiderio. Il mondo del cinema sta cambiando anche grazie al #MeToo, ma c’è ancora tanto lavoro da fare.

Hai già accennato al prossimo film che sarà girato nel 2024, ambientato a Trieste nell’ultimo anno di una scuola superiore, in cui ci sarà molto musica (ma non sarà un musical, com’è stato scritto) e di cui parleremo quando lo avremo visto. Su cosa stai lavorando ora?

Ora siamo nel momento che preferisco, quello di apertura, in cui le cose sono ancora di creta informe: ci stiamo preparando, con la sceneggiatrice Elisa Dondi e la stessa produzione Nefertiti Film, alla ricerca delle location e delle facce e delle collaborazioni. Inoltre, affianco il mio lavoro di regista a quello di educatrice in diversi contesti. Non penso che il cinema si possa proprio insegnare ma mi piace condividere gli strumenti che ho acquisito, è mettere in giro dell’energia che poi ritorna. All’inizio, non credendoci fino in fondo, dicevo che il cinema è tutta la mia vita. Ho scoperto che non è assolutamente vero e non mi interessa fare un film per fare un film. È un pretesto per entrare in relazione con le persone e scoprire cose nuove e me attraverso le cose. È un circolo virtuoso, una cura infinita.