Afghanistan One Year Later

DONNE CHE RESISTONO AI TALEBANI

foto e testo di Laura Salvinelli

 

   “Mi hanno colpito la forza e l’innocenza di una ragazza di 17 anni venuta da sola da una provincia rurale per farsi visitare per una malformazione dei genitali. Io le ho iniziato a spiegare il percorso di cura possibile e le ho detto che avrei dovuto parlare con i suoi genitori. Al che lei mi ha risposto che suo padre era morto e sua madre anziana non capiva più niente, quindi poteva contare solo su se stessa. Mi ha meravigliata soprattutto la sua domanda “Come sarà la mia vita?” Sono ammirata dalla capacità di immaginarsi ancora una vita, dal coraggio di mettere in gioco le circostanze e dalla mancanza di rassegnazione di questa ragazza che ha fatto tutto da sola in un posto in cui tutto ciò che ruota intorno alla vagina è tabù. Sono contenta per lei e le auguro ogni bene”. Così mi racconta Keren Picucci, ginecologa da 9 anni in Panshir. A quasi un anno dalla presa di potere da parte degli studenti coranici, sono tornata a farmi raccontare come vivono le donne da EMERGENCY, unica Ong italiana che non è mai andata via e unica organizzazione internazionale presente in Panshir, la Valle dell’eroe nazionale Ahmad Shah Massoud e dei mujaheddin, nemici giurati dei talebani. EMERGENCY è in Afghanistan dal 1999. I suoi 3 Centri chirurgici per vittime di guerra del Panshir (dove sono anche il Centro di maternità e il pediatrico), di Kabul e di Lashkar-Gah, nell’Helmand dell’etnia pashtu, roccaforte talebana e produttrice, insieme a Kandahar, del 90% dell’oppio e dell’eroina mondiali, sono un osservatorio eccezionale. A maggior ragione in un Paese in cui non ci sono giornalisti, le notizie circolano per passaparola e attraverso i social, senza nessuna possibilità di verifica. Per motivi di sicurezza non ho potuto raggiungere il Panshir, dove i mujaheddin arroccati sulle montagne fanno resistenza con azioni di guerriglia, e l’intervista con Keren si è svolta su Skype da Lashkar-Gah. Nella Valle i controlli nelle case sono frequenti, per capire se ci sono legami con la resistenza. Le famiglie devono nascondere o distruggere le foto, i ricordi, i messaggi: tutta una parte della loro vita. In questa situazione, come stanno le donne?

   Diciamolo subito chiaramente, dopo fiumi di inchiostro inutile ancora sul burqa. L’ordinanza di maggio di coprire il volto, con l’uso del niqab e non necessariamente del burqa, non ha cambiato sostanzialmente nulla. Nelle zone rurali le rare donne che si vedevano per strada erano sempre tutte col burqa. A Kabul ma anche nella tradizionale Lashkar-Gah ora si vedono donne da sole, con i figli, o accompagnate dal mahran, una scorta maschile che può essere il marito o il fratello, altro obbligo imposto dai talebani. Sono tutte a testa coperta, ma non necessariamente a viso coperto. Non ci sono controlli effettivi e in ogni caso la punizione spetterebbe ai mariti o ai padri o ai fratelli. C’è chi scherzando dice anche che vorrebbe uscire senza velo per fare un dispetto a questi. Scherzi a parte, il burqa è l’ultimo problema delle afghane. I problemi reali, gravissimi, in parte non dipendono dai governi che cambiano, ma dal sistema radicalmente patriarcale che le costringe spesso a matrimoni forzati e precoci, e le considera dei “bambinifici”.  Silvia Triantafillidis, infermiera, mi ha raccontato di una paziente di 17 anni sgozzata dal fratello per essere stata scoperta con un ragazzo, e di un’altra, che ha ricevuto 15 coltellate, anche lei dal fratello, per aver osato rifiutare l’uomo che la famiglia aveva scelto come suo marito. Si chiama Mursal, ha 20 anni, l’ho vista in corsia, è bella come una bambola di porcellana di inizio Novecento. A questi problemi, ora si aggiungono l’estrema povertà, la chiusura delle scuole secondarie e il divieto di lavorare tranne che nel settore della sanità e della scuola, annientando la speranza in un futuro migliore. La disoccupazione anche degli uomini – tutti gli impiegati per il governo precedente, come i tipici poliziotti, l’hanno perso, e in molti casi non possono cercarne un altro rischiando di essere accusati di essere anti-talebani – la siccità peggiore degli ultimi 30 anni, l’ingiusto congelamento dei soldi afghani nelle banche americane, l’aumento del costo dei beni di prima necessità – il pane e l’olio per cucinare raddoppiati, la benzina triplicata – fanno sì che da povere siano diventate poverissime. Arezoo, 19 anni, infermiera dell’ospedale di Kabul, mi dice che ora in casa mangiano una volta al giorno, e che quando a mensa c’è la carne non la prende perché si vergogna di non poterla dividere con la madre e le sorelle. Il padre è scappato in Iran con la seconda moglie, e non manda i soldi alla prima, sua madre. Chi ha potuto è andato via - c’è stata una gravissima fuga di cervelli perché chiaramente le persone specializzate hanno avuto più mezzi per poterlo fare -, chi è rimasto vorrebbe andare via. La salute materna è in condizioni disperate. Le donne non vanno negli ospedali perché non hanno i soldi, se lo fanno è quasi sempre troppo tardi. In una settimana a novembre il Centro di maternità del Panshir, ha registrato tante morti materne quanto negli ultimi due anni. Keren mi ha raccontato della zia di una loro ostetrica che per andare a partorire da loro, è partita dalla provincia di Kapisa con la sorella, la madre dell’infermiera, e un autista a pagamento. L’uomo non si è fermato a un check-point e i soldati hanno sparato. A quel punto ha perso la testa: è tornato verso casa prima di decidersi a proseguire per l’ospedale. Quando infine sono arrivati, la madre dell’ostetrica era morta, e la zia ha partorito in stato di shock. E dal discorso della massima autorità talebana, lo sceicco Haibatullah Akhundzada, alla Grande Assemblea degli Ulema tenuta a Kabul dal 30 giugno al 2 luglio, sembra che il peggio debba ancora arrivare. Il leader ha dichiarato che la jihad, la guerra santa contro gli infedeli continua, che l’Afghanistan non si piegherà alle idee occidentali e che dovrebbero essere ripristinate le pene corporali per i crimini contro Dio e gli uomini. 

   Eppure molte donne resistono - nelle piccole cose, come truccandosi sotto ai veli nonostante i divieti, e nelle grandi. L’empowerment ottenuto attraverso la formazione professionale e l’impiego nei Centri di EMERGENCY è ancora più prezioso. Le infermiere, ma anche le addette alla sartoria-lavanderia o al nido per i figli dello staff femminile dell’ospedale di Lashkar-Gah, in maggioranza ventenni, sono quasi sempre le uniche a portare lo stipendio a casa e mantenere le loro famiglie allargate. Anche se non sono libere di decidere chi e quando sposarsi, non sono costrette a matrimoni precoci e nessuna di loro avrà 10 figli. Ne parla con orgoglio Leila Borsa, medical coordinator del Centro, infermiera. “Anche se questa è zona pashtu, i combattimenti sono stati aspri. Quando i talebani sono entrati in città, siamo rimasti in ospedale per 17 giorni fino al 15 agosto. Sparavano e soprattutto lanciavano razzi da una parte all’altra del fiume. Uno è atterrato nel nostro giardino, per fortuna in una zona senza persone. Ma non siamo mai stati minacciati: l’aver curato bene e gratis tutti senza mai chiedere a quale fazione appartenessero ci ha protetti. Abbiamo fatto dei turni di 24-48 ore per coprire l’assenza dei colleghi che erano impossibilitati a raggiungere l’ospedale e assistere tutti i feriti che arrivavano. Tutto il personale è stato estremamente disponibile, senza chiedere niente in cambio. Anche alcune infermiere sono rimaste a dormire qui qualche giorno”. Latifa, 27 anni, è una di loro: “Sono rimasta 3 giorni senza tornare a casa, ero incinta e molto spaventata, ma non volevo lasciare il lavoro”. “Ho visto infermiere che si offrivano spontaneamente per assistere anche pazienti uomini. È stata una grande soddisfazione. Due di loro sono ora fisse al pronto soccorso” continua Leila. Anche per lei, unica donna internazionale, 32 anni al momento del passaggio della Storia, è stata una bella prova di resistenza.

   Per Keren “Anche nel niente, per me l’importante è resistere, essere ancora presenti e offrire un ultimo baluardo in cui i diritti possono essere difesi”. Per me, continuare a raccontare queste storie con parole e fotografie, e sostenere chi aiuta a difendere i diritti umani, salvando vite o rendendole meno dure.